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Vico Di Varo e il linguaggio

Vicovaro – Silenzio e parola. Il primo vero e proprio libro di Amedeo Rotondi (Saggezza dell’Oriente, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, era una raccolta di massime appunto orientali) mette in dialogo questi due elementi e costruisce un’etica, prima ancora che una filosofia, del linguaggio, proponendo in un corposo volume una serie di riflessioni sulle sue potenzialità e le sue ambiguità.

Come si capisce dal titolo, del resto, L’arte del silenzio e l’uso della parola (autoprodotto nel 1964 e poi ristampato dalla Libreria Rotondi nel 2004 e nel 2017) mette in primo piano quella sfera pratica (leggiamo arte, uso) che per Rotondi risulta fondamentale. Già nella prefazione a Saggezza dell’Oriente leggevamo infatti dell’obiettivo “funzionale” della scrittura, funzionale al ben vivere – e ciò ritorna anche nella prefazione di questo volume, che si dice essere un libro «per gli uomini di buona volontà, per i quali, soli, fu portata la pace sulla terra. Non per chi voglia restare nella palude della meschinità vegetativa. È un libro, quindi, che può giovare». Se consideriamo poi che l’uso della parola è proprio il tema quest’opera – la prima, per giunta, a riportare lo pseudonimo Vico Di Varo, chiaro riferimento alle origini dell’autore – entriamo in un meta-circuito per cui scopo pratico e tema del libro coincidono.

Questa premessa, dunque, per sottolineare come L’arte del silenzio e l’uso della parola ci risulta interessante sia per comprendere, sul piano teorico, la concezione del linguaggio in Rotondi, sia, sul piano pratico, la connessione – proprio – tra teoria e pratica, che si risolve in una scrittura «che può giovare», in continuità con la raccolta di massime del libro precedente. Continuità che si conferma, del resto, anche nell’ispirazione dichiarata dall’autore: la «meditazione dello Zend-Avesta per il governo della parola», libro sacro per lo zoroastrismo.

Misticismo orientale e pragmatismo occidentale: questa una delle convergenze centrali del pensiero di Rotondi. E così il libro, dopo una prima parte più generale, in cui l’autore riflette sulla realtà e il rilievo del linguaggio nella vita degli uomini, il libro si apre a una sorta di «parafrasi» di sei regole tratte dallo Zend-Avesta: «1) Non lasciar mai parlare il lato basso del tuo carattere; 2) Non parlare di un soggetto che non conosci a fondo; 3) Non parlare di ciò che personalmente non sai essere l’esatta verità; 4) Non parlare se l’oggetto delle tue parole non è chiaro e definito nel tuo pensiero; 5) Non parlare se non con intonazione cordiale; 6) Non parlare se i tuoi uditori non ti ascoltano, giacché una buona parola è inutile ad un cattivo orecchio».

Anche strutturalmente, di conseguenza, il libro segue una bipartizione – una parte teorica, un’altra pratica – senza che tuttavia le due dimensioni restino indipendenti. E anzi, in questo senso, anche per il “buon uso” del linguaggio rimane centrale un assunto teorico (che chi scrive, tra l’altro, ritiene il punto più forte del libro); ovvero che il linguaggio sia per sua natura ambiguo. Non siamo nel terreno radicalmente anti-logocentrico della decostruzione, ma Rotondi sembra anch’esso sposare un’idea di “inaffidabilità” della parola. Leggiamo ad esempio: «La lingua è l’organo che cagiona all’uomo il maggior numero di dispiaceri, ma, può essere anche fonte di buone soddisfazioni. L’aspetto negativo, per i dannosi effetti causati dal cattivo uso di essa, sembra superare l’aspetto buono. Forse perché è certamente maggiore il numero di coloro che ne abusano. Eppure vi sono molti che si dedicano a compiti educativi, alla diffusione di buone idee, con la parola e con gli scritti, in ogni parte del mondo, in ogni attività umana.»

Si capisce dunque come il taglio morale dell’opera dipenda proprio da questo scarto tra realtà e parola, e come sia proprio sull’uso della seconda che si misuri la virtù degli individui, chiamati a operare scelte – teste lo Zend-Avesta – sul maneggiamento del linguaggio. Anche per questo il primato, tra i due poli del titolo, spetta infine al silenzio, visto non come assenza di parola, bensì come saggio superamento della sua ambiguità fondamentale: «La vita vera, quella che lascia una scia, è fatta di silenzio. Il silenzio nel quale il pensiero penetra nelle profondità o si eleva alle più sublimi altezze».

Nei due diversi sostantivi utilizzati nel titolo, allora, si coglie un rapporto dialettico, ma anche gerarchico: quello della parola è un uso, pratico, dunque sottostante alle leggi disarmoniche della vita materiale e quotidiana; quella del silenzio è un’arte, strumento di emancipazione dalle sfasature co-create da materia e linguaggio. Ed è in questa scelta, proprio, che si può osservare in miniatura l’intero schema filosofico che sta alla base del pensiero di Rotondi.

[Le foto contenute nell’articolo sono di proprietà dell’Archivio Amedeo Rotondi e riportate qui per sua gentile concessione]