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Su ‘Anima vetrata’ di Emiliano Romeo

Tivoli – Un punto su cui sicuramente ha bisogno di lavorare la scrittura che si produce nella nostra zona, riguarda lo spettro di ciò che si può raccontare o pensare in poesia. Ovvero uscire da un intrigo di rappresentazioni trite – di taglio soprattutto paesaggistico-folclorico – che fanno della “nostra letteratura” (se possiamo chiamarla così) qualcosa che stenta a scollarsi da certi miti ormai inservibili, a costruire un’immaginazione che sia solida e allo stesso tempo specifica della nostra antropologia (e geografia).

L’aspetto positivo che mi sento di sottolineare riguardo ad Anima vetrata (autoprodotto, 2022) di Emiliano Romeo, nome d’arte del poeta tiburtino Emiliano Proietti Pannunzi, ha proprio a che fare con questo allargamento (e ammodernamento, se si vuole) dell’immaginazione poetica. Non solo: l’aumento dello spazio dato a questa necessità è anche ciò che distingue questo volumetto dal precedente dello stesso autore (Anima naturale, 2019). Benché il secondo libro segua per certi aspetti il primo – come la presenza comunque evidente del gusto per i Paesaggi, da cui il titolo di una sezione, nonché, stilisticamente, una versificazione poco prevedibile, che oscilla tra gusto estetizzante e frantumazione – Anima vetrata, fin dal titolo, si propone infatti più spigoloso e meno conciliante.

Al netto di alcuni testi più ancorati alla tradizionale possibilità amorosa (se non erotica) della poesia, in questo libro Romeo dedica diverse pagine a questioni socio-politiche ed economiche (nell’ottica di un dichiarato anticapitalismo: «La violenza capitalistica / È nervosamente bloccata / Appartengo a una specie che non si evolve») e alla disintegrazione esistenziale («Volevo essere un’iscrizione però / un’antica statua o un simbolo / da studiare ammirare / ma con la distanza del rispetto / senza legami col mondo umano»), due ambiti che vanno a ripercuotersi sullo stesso ruolo poetico del paesaggio, passato ora da oggetto che si contempla e di cui si gode (motivo comunque presente nel libro: «Tarquinia si circonda d’aria / di belvedere puliti») a realtà minacciata («Le piante avevano abbandonato il pianeta») e di conseguenza condizione di minaccia anche per l’uomo, che nel contesto naturale è chiaramente parte («Io che avevo fattezze umane non potevo respirare / lì fuori»). Da una parte, quindi, la spinta politica ad agire contro questa minaccia, dall’altra la verifica di questa frattura storica, e universale, nell’esperienza del soggetto, cui non a caso spesso si rinchiude in un cupio dissolvi naturale («Sei terra, aria / aria devi diventare / devi perpetrare // Sei acqua / la tua vera spina dorsale, il tuo fine / è acqua»), ma più traumatizzato e meno estasiato rispetto a quello già presente nel libro precedente (dove si leggeva ad esempio: «divento un essere geologico / arrivo a spalmare il corpo su tutto il globo / il colosso terracqueo / lo sento mio»).

Tutto ciò si riflette sulla scrittura in senso stretto; più acuminata e in crisi rispetto ad Anima naturale. Il lessico risulta più disponibile a innesti scientifici, “impoetici” o comunque scabri («sei rame, ferro, sodio / fosforo / azoto / ossigeno / ossidi di azoto / acidi grassi / catene polipeptidiche / orbitali / misteri di quanti e gravità / carbonio / reazioni e ossidoriduzioni // cicli di Krebs, cicli di acqua»), i versi tendono a costruire anafore ossessive («Essere intimi con lo spazio: / spazio di volontà / spazio di agilità / spazio di coordinamento / spazio di confinamento») fino a slogarsi e costruire un senso di claustrofobia. Lo scenario generale che ne emerge è quindi tutt’altro che conciliante, se a un certo punto, dopo La dolce vita e Paesaggi, entriamo in una cupa Tanatosi (dove si parla proprio di una «morte su un baratro / di tradito romanticismo»), e se il finale Lieto fine è tutt’altro che lieto, e incentrato su una serie di testi contigui (o un unico testo frantumato) in cui il soggetto si decompone («Ma io inspiegabilmente cadevo / in ogni goccia di sapone, / il pensiero mi cadeva / gli abiti a poco a poco mi cadevano / o io cadevo con loro»), fino all’ultimo, lapidario, verso: «Era una sparizione.»

Se i momenti migliori di questo Romeo sono quelli in cui la sua nuova strada, nonché la propulsione politica, riesce a incarnarsi in movimenti tangibili, scene, fratture, più che a essere citata direttamente (e perciò indebolita), nel complesso questo libro è segnale di possibilità ulteriori per la scrittura d’Aniene – spesso (ma come si vede, per fortuna, non sempre) incagliata in dinamiche ed estetiche già silurate dalla storia.