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Recensione di “Anima naturale” di Emiliano Romeo

Tivoli – Qual è il punto esatto in cui interferiscono la poesia e la botanica? La silloge poetica Anima naturale di Emiliano Romeo, pseudonimo di Emiliano Proietti Pannunzi, uscita a dicembre 2019,  è un tentativo di rispondere a questa domanda.

Non esiste, in verità, un momento del libro in cui questo interrogativo venga posto in maniera esplicita. La stessa impostazione sintattico-ritmica, però, rivela uno sforzo per attingere a quella dimensione esatta, naturale, da cui sgorga però, qualcosa di assolutamente artificiale (stessa radice latina di arte) come la poesia. Il periodare è infatti tendenzialmente nominale o in qualche modo constativo: nella maggior parte dei casi le poesie si rivolgono a un oggetto naturale e ne srotolano, contemporaneamente, gli elementi fisici (da cui una serie di stimoli estetico-emotivi) e le azioni, che, però, in quanto attuate da vegetali, si riducono sostanzialmente a un puro esserci, sebbene nella peculiarità che le morfologie botaniche impongono. Un esempio per tutti, “Culla nascosta”: “L’ombra è un rifugio vegetale / un ovattato sintomo di solitudine / o di meditata decisione, / scandite silenziosamente / da queste lingue verdi / semplici estensioni del riposo”.

Questa riduzione non è da intendere, comunque, come un abbassamento stilistico (il tipo di poesia che propone Emiliano Romeo è anzi lessicalmente ricco, spesso incrociante i termini tecnici a quelli quotidiani e/o sentimentali, come in “[…] le foglie / quasi figlie dell’opus mixtum”), né tantomeno come passività dell’elemento naturale. Credo che Anima naturale sia invece il tentativo di penetrare quella passività, attraverso lo sforzo poetico e botanico assieme (giova ricordare che Emiliano Proietti Pannunzi è guida ambientale escursionistica), per restituirla a una dimensione di senso che non sia più quella umana, e cioè non più giudicabile passiva, ma semplicemente essente. Ed essente in forma particolare, in quanto strettamente inserita in una data caratteristica fisica e sensuale (si vedano i versi: “l’occhio d’amore invita ad entrare / a roccia-suolo-radice-fusto-foglia-fiore”, con pura presa d’atto dell’esserci vegetale, smontato nelle sue costituzioni fondamentali). Se la poesia, insomma, trae dall’oggetto vegetale l’atmosfera di un’estasi sensoriale, l’approccio scientifico, emotivamente neutro, ne considera anche l’assoluta entità non-umana.

Il titolo, in questo senso, è un programma. Tutto l’obiettivo del libro è quello di far convergere lo spirituale (l’anima) che lo spettacolo naturale trasmette – per indotta proiezione umana o per metafisica essenza della natura stessa (qui c’è da dibattere, con buona pace di Simmel e del suo Filosofia del paesaggio) – con l’essere schiettamente materia e vita non-umana del mondo arboreo. Effetto è una precisa situazionalità degli eventi poetici. Il libro è infatti scandito da una serie di rapide sezioni, ognuna recante l’indicazione dello spazio geografico preciso cui si fa riferimento (ad esclusione delle ultime quattro parti, intitolate a neve, terra, acqua e foglie): si passa da Villa Borghese a Villa Ada a Villa d’Este, non solo per evidente derivazione dall’attività di guida del poeta, ma soprattutto in ottica di stretta correlazione tra il fare poetico e l’osservazione naturale, che, per sua stessa fattura, non può che essere posizionata, incarnata a un luogo preciso. Un cedro di Villa Sciarra è per forza un cedro di Villa Sciarra, e non un cedro in genere svincolato dalla sua realtà fenomenica.

Anima naturale è una raccolta, insomma, che gioca nell’accordo tra lo spirito e la natura. Il linguaggio poetico è il veicolo che può fare da accordo tra le due dimensioni (può chiamarsi allora “Mistero umido”, come il titolo di una composizione) e l’essere umano, il cui occhio è comunque irrimediabilmente presente, punta ad annullarsi nel puro accadere della natura, non per generico panismo ma per spontaneo aggregarsi del corpo umano all’ammasso terrestre: “divento un essere geologico / arrivo a spalmare il corpo su tutto il globo / il colosso terracqueo / lo sento mio”.