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Ántrophos, Adam Qadmon, MaKom: tre film di Benedetto Simonelli

San Polo dei Cavalieri – È significativo, dal mio punto di vista, che molti tra i migliori artisti che vivono nella provincia, almeno nella nostra, conducano una vita appartata. Tra questi possiamo inserire sicuramente Benedetto Simonelli, tra i più rilevanti del nostro territorio e anche tra i più schivi. Ma la riservatezza, in Simonelli – e questo è il dato più interessante – si sovrappone proprio alla sua ricerca artistica: dalle importanti esperienze nel teatro sperimentale negli anni ’60 e ’70, il suo lavoro si è sempre più spostato sulla video-arte, su una meditazione che lo ha portato a scavare a fondo nel rapporto tra uomo e natura.

I diversi film sperimentali o “documenti visivi” prodotti da questa linea non sono quindi rappresentazioni del paesaggio, bensì installazioni estetiche, diari immaginativi del ritiro in un luogo solitario (che l’artista ha individuato già da tempo nella montagna di San Polo dei Cavalieri), ma anche, più in generale, indagini sulle modalità di abitazione (in senso fisico e culturale) dei luoghi di margine. Non solo per il suo valore intrinseco, quindi, ma anche per questo significato ulteriore e collettivo risulta urgente ragionare sul lavoro di Simonelli: dopo aver discusso di Genesi e Radici, in questa sede, proseguiamo ora con alcune riflessioni su MaKom – l’ultimo documento che, recentemente, si è aggiunto alla serie – e altri due film precedenti.

 

Ántrophos

Il primo di questi è Ántrophos. Parte della trilogia che comprende proprio Genesi e Radici, Ántrophos ha punti di contatto sia con quei due lavori che con MaKom. Come da costante nell’opera di Simonelli, Ántrophos si concentra infatti sugli elementi fondamentali della natura, soprattutto Fuoco e Acqua, nonché su un individuo-simbolo, El Abdul, «in ascesa verso il suo Luogo». Possiamo interpretare El Abdul, presente anche negli altri documenti visivi dell’autore, come una sorta di alter ego dell’autore, da intendere però in maniera meno narrativa e meno egoriferita possibile: un alter ego, cioè un altro individuo, attraverso cui l’artista si proietta per condurre un’esperienza sovrapersonale di attraversamento dell’esistente. Qui si vede, da lontano ma attivo, l’impegno pregresso di Simonelli nella performance: come in quel caso, anche qui il corpo e la soggettività sono in qualche modo straniati rispetto a se stessi, approcciati come strumenti estetici, funzionali proprio nel paradosso di coincidere con il corpo e la psiche dell’artista.

Non è un caso che in Ántrophos l’individuo – interpretato dallo stesso Simonelli – non viene ripreso mai in piena figura. Seguiamo un suo spostamento, e in particolare la sosta presso un fontanile, cui corrispondono una serie di gesti rituali, come quelli della manipolazione e dello spargimento dell’argilla. Sono gesti che ritroveremo anche in MaKom, ma di cui adesso voglio sottolineare soprattutto il carattere “decentrato”, sconnesso: forte anche del super8, Ántrophos procede per inquadrature ristrette, sgranate, sovrapposte, a evidenziare una non-totalità, una non-pienezza dello sguardo. Il percorso di El Abdul verso il «suo Luogo» è certamente un percorso di recupero (o rifondazione, come suggerisce l’argilla) di un contatto perso, di un uomo disarcionato dal suo ruolo ecosistemico: in questo senso, il confronto con l’animale è rivelatorio, dal momento che abbeverandosi con naturalezza allo stesso fontanile le mucche segnalano proprio il ruolo ecosistemico che l’animale, a differenza dell’uomo, è riuscito a mantenere. D’altro canto, però, è proprio la qualità mossa, fuori fuoco, del materiale filmico a rafforzare il filtro (culturale, mediale) tra uomo e natura e perciò a evidenziare la posizione problematica del soggetto uomo. Ántrophos, da titolo, è una ricerca sull’uomo da parte dell’uomo, il cui spaesamento all’interno del sistema-natura non può che condurlo a desiderare, appunto ricercare, un Luogo risolutore.

 

Adam Qadmon

Il fontanile e il suono dell’acqua aprono anche Adam Qadmon, il cui «Viaggio verso la luce» può mettersi in stretta continuità con la ricerca del «Luogo» di Ántrophos. Del resto l’arte di Simonelli ruota attorno ad alcuni centri tematici e stilistici fissi. Questo perché, mi viene da dire, l’arte di Simonelli in realtà non è né tema né stile: ciò di cui si fa carico è la possibilità/necessità di tornare ad esperire una connessione ancestrale tra l’individuo e l’ambiente (nel senso etimologico di “ciò che circonda”) negata all’uomo moderno. Si tratta quindi sempre di un’arte, come dire, liminale, che non ha obiettivo di rappresentare (tema) né di esprimere (stile), ma di performare, nella contraddizione di vicinanza e lontananza generata dall’immagine, questa ricerca di connessione.

Quanto al luogo, infatti, in Adam Qadmon si legge «Laddove Origine e Fine si ricongiungono in un Punto», un’espressione che ci permette di inquadrare ancora meglio il «Luogo» di Ántrophos come qualcosa di non fisico, o meglio di fisico e non-fisico contemporaneamente. Teniamo presente che Adam Qadmon, per la mistica ebraica, rappresenta il primo uomo, una figura che tiene insieme, a partire dalla sua androginia, le scissioni dell’essere umano. Ecco che perché, benché passi attraverso la realtà materiale, la ricerca di El Abdul ha a che fare con qualcosa che, pur non eliminandola, la trapassa. Le riprese più pulite rispetto a quelle volutamente opache di Ántrophos, fanno qui focalizzare meglio gli spazi in cui si muove l’individuo, che sono appunto quelli della montagna. La roccia, il vegetale, ma anche l’incombenza del cielo, gli astri, cercano di abilitare, nella loro insieme meravigliosa ed esasperante nudità, le coordinate in cui l’uomo originario (o più esattamente, l’uomo scisso memore in qualche modo dell’uomo originario) si muove. Ma la gestualità di Adam Qadmon è più minimale e meno rituale rispetto a quella, a tratti anche nervosa ed espressionistica, di Ántrophos. Ed in questa minimalità, con l’individuo di spalle che si limita a camminare, con lo studio del suo passo e dei percorsi aspri della montagna, con la sua stasi – disegnata con grande effetto verso la fine – in uno spazio alberato, comprendiamo come la tensione tra fisico e non fisico sia il vero propulsore “narrativo” di questi documenti visivi.

 

MaKom

Arriviamo dunque a MaKom, ultimo documento firmato Simonelli. Le caratteristiche fondamentali della video-arte simonelliana si ritrovano qui nella loro pienezza: l’uso del piano sequenza, dell’inquadratura fissa, la montagna come spazio di elezione, la riflessione spirituale (la prima sezione del film si intitola Iniziazione). Come nei film precedenti, la montagna non deve essere intesa però come paesaggio, cioè come realtà contemplata, oggetto dello sguardo. Se esiste – ed esiste – una contemplazione nel lavoro di Simonelli, è sempre una contemplazione che si incarna, in qualche modo, nell’esperienza dello spazio.

Sulla scia di Radici e Adam Qadmon, infatti, MaKom fa succedere riprese “nude” della natura, osservazione al grado zero; ma come Genesi e Ántrophos, d’altra parte, filma anche dei gesti – camminare, accendere un fuoco, spostare dei sassi, spalmarsi il corpo con l’argilla. Questi gesti sono elementari sia nel senso della semplicità sia in quello del rapporto con gli elementi fondativi della natura. Del resto MaKom in ebraico significa “luogo”, e troviamo ancora, dunque, l’interrogazione del rapporto tra l’uomo e lo spazio, rafforzata dal fatto che il silenzio dei film di Simonelli è interrotto solo dalla colonna sonora (soprattutto idrica) degli eventi naturali. L’esergo a inizio film, poi, fornisce un’importante chiave di lettura: «Io non credo – leggiamo – che Dio abbia creato con l’Universo la Vita. Ma sono nel flusso di una continua emanazione di Energia e di una incessante Creazione di Vita ogni volta che attraverso il Corpo infinitamente esteso e concentrato della Natura.» Ecco, l’assenza di dualità (non un creatore e un creato, ma un flusso panteistico) e l’attraversamento dello spazio sono il punto filosofico-pratico fondamentale dell’arte di Simonelli.

Conviene tuttavia soffermarsi ancora un attimo sulla modalità con cui si compiono questo attraversamento e i gesti prima elencati. In MaKom il personaggio appare accecato da una spessa benda nera, e uno dei frammenti più potenti del film è quello di un primo piano in cui l’individuo, steso sulla pietra, muove dei sassi e finisce per mescolarsi, attraverso il montaggio, al sole; diventa «corpo alla prima luce», per dirlo con un verso da Le due anime, libretto che Paola F. Febbraro ha pubblicato contestualmente a una proiezione romana di Genesi. Questa immagine è la prova più evidente di come l’identificazione con il flusso naturale, in Simonelli, passi attraverso una privazione sensoriale, e precisamente una privazione ottica: tutti i gesti sono manuali o cinetici, riguardano la costruzione di un contatto col naturale parallela all’ottusione della vista, del senso più usato. È apparentemente paradossale che questa negazione della vista si compia all’interno di un’opera costruita tramite l’immagine; ma in questa contraddizione, in verità, sta la cifra “non contemplativa” dell’immagine simonelliana, che non va banalmente visionata ma in certo senso esperita, considerata come canale scopico della tridimensionalità, o ultradimensionalità, della natura.

Di più: il bendaggio e la contraddizione tra bendaggio e cinema sono l’indice del significato storico di MaKom. Il bendaggio suggerisce del resto la presenza di un elemento (la vista) che impedisce la riconnessione col «flusso di energia» descritto finora: la vista è infatti proprio il canale principale attraverso cui si costruisce la percezione della distanza e cioè, ancora, della dualità tra soggetto e oggetto. Non a caso la nostra cultura (occidentale) è visivo-centrica: è una cultura della distanza, della scissione, del feticcio, della non-coincidenza. Come il bendaggio cerca di bypassare questa distanza, quindi, l’arte filmica la riporta al centro del discorso, con lo spettatore che di fatto si trova “distante” rispetto al ricongiungimento con la natura che si evoca nel film. Lo sforzo di Simonelli è uno sforzo titanico, che ha a che fare con una perforazione dell’immagine per via dell’immagine, con un salto antropologico oltre l’ostacolo sensoriale, oltre che la storia. La scelta delle montagne di San Polo come co-attore (non scenografia!) di questo sforzo, poi, è il sigillo definitivo sulla natura situazionale, pratica, «ascensionale», come scrive Claudio Trionfera, dell’arte di Simonelli: in un preciso luogo, in un preciso tempo, per valicarli.