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“Radici”: Un film di Benedetto Simonelli, artista di San Polo dei Cavalieri

San Polo dei Cavalieri – In un articolo precedente (che si può leggere qui: https://www.confinelive.it/limmagine-come-filosofia-genesi-di-benedetto-simonelli-artista-di-san-polo/) ho analizzato un film molto denso di Benedetto Simonelli, artista di San Polo, dal titolo Genesi: un’opera che scardina la concezione “comune” di cosa sia un film, procedendo per giustapposizioni di immagini, abolizioni del narrato e recupero della potenza intrinseca nell’immagine, dell’immagine quanto tale.

Questi ultimi caratteri possono essere tenuti in considerazione anche a proposito di un altro “documento visivo” (così lo chiama l’autore) di Simonelli, ovvero Radici – La presenza nel luogo del tempo, che si distanzia da Genesi, però, per altri tratti fondamentali. La definizione di “documento visivo”, comunque, funziona per entrambe le opere, e sottolinea la volontà dell’artista di recuperare il mezzo filmico come estetica dell’immagine, svincolato da ogni teatralizzazione o psicologismo. Si potrebbe usare benissimo la definizione di film, anche, dacché il film nasce proprio sotto questo segno, e cioè con la scoperta di una nuova forma di espressività (non immediatamente di racconto) che è quella dell’immagine. È intelligente, comunque, parlare di “documento visivo”, se “film”, ormai, è una parola che ha perso (per ragioni storiche ed estetiche) gran parte della sua carica eversiva originaria, ed è sempre più associata, specie nel senso comune, al mondo dell’intrattenimento.

Ecco: innanzitutto l’arte di Simonelli non “intrattiene”. E questo è un pregio, se lo scopo vuole essere – come detto – il recupero della potenza artistica dell’immagine in quanto tale, non piegata verso la letteratura (né tantomeno verso il mercato). Radici e Genesi sono entrambi film che obbediscono a questo imperativo: sono serie di immagini naturali, immersioni nel paesaggio, negazione della drammaturgia.

Venendo però alle differenze – che permettono di individuare la specificità di Radici – si nota che Genesi è impregnato di un tono biblico (era del resto diviso in «parabole»), di un afflato mistico che sorpassa la contingenza del paesaggio, la colloca in un orizzonte di senso più vasto di quello umano. Tutto questo manca in Radici, che è invece un lavoro più essenziale, con inquadrature più statiche e un taglio più minimale.

C’è un solo vero protagonista in Radici, ed è il suo sottotitolo: La presenza nel luogo del tempo. La macchina da presa fissa su squarci naturali (sono i paesaggi montuosi dei dintorni di San Polo) permette di cogliere ogni minimo movimento, come quello dell’erba sotto un lieve vento, delle nuvole, di un cavallo quasi immobile. E la presenza è sia la presenza dello sguardo rivolto a questa natura, sia (io credo soprattutto) quella della stessa natura, che è presente a noi in quanto scenario della nostra esistenza, in quanto intrinsecamente animata seppure impercettibilmente: il tempo del sottotitolo è già nella leggerissima piega della foglia. Luogo e tempo, insomma, sono le coordinate – in senso kantiano, quasi – in cui il mondo ci è dato; e in queste si può rendere possibile la presenza.

Del resto, l’umano compare qui pochissimo. Anche in Genesi la dimensione naturale prevaricava su quella umana, ma l’Uomo era comunque moltissimo presente, se si considera l’obiettivo spirituale e politico del film, e la centralità della parabola, cioè della parola. In Radici l’uomo è ancora di più figura fra le altre, non predominante: compare vagando per i boschi, si vede quasi sempre di spalle, è un wanderer, condannato e insieme premiato a perdersi nel mondo. E quando si vede il suo volto (che non è poi neanche sempre della stessa persona, lungo il film), lo si vede soprattutto quando si accovaccia vicino a una pozzanghera, o organizza un fuoco: ancora – questo sì, in comune con Genesi – l’azione umana ricondotta ai suoi approcci originali con il mondo, ovvero quelli che possono avvenire tramite gli elementi portanti della natura: l’acqua e il fuoco.

La citazione da Proust che chiude il film, poi, assicura questa interpretazione: «Il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi». Radici sceglie il minimalismo perché vuole ricondurre tutto a un gioco di sguardi: la figura del wanderer è solo una metafora caduca di fronte alla scoperta della presenza, che si dà nello stesso atto dell’esistere; ma occorre il silenzio, l’immagine fatta filosofia per riappropriarsene oltre i divertissement troppo facili della vita. Pur non avendo la complessità strutturale e semantica di Genesi, Radici non è da meno in forza espressiva e intelligenza visiva: un’altra prova dell’alto valore artistico di Benedetto Simonelli.