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Zagarolo, dal 6 maggio la mostra personale del pittore Mario Ricci a Palazzo Rospigliosi

Zagarolo – Le sale del Palazzo Rospigliosi di Zagarolo diventano il perfetto teatro scenografico per la pittura rizomatica di Mario Ricci. Un luogo di memorie e antichi splendori che accoglie i diversi cicli tematici dell’autore, sorta di lente che attraversa il tempo di una mostra antologica ma con la sintesi di un racconto omogeneo, in armonia dialettica con le pitture parietali di un’ambientazione alchemica e sensuale.

 

Il Vernissage si terrà venerdì 6 maggio alle ore 19.00 e le opere e i quadri potranno essere ammirati dal martedì alla domenica dalle ore 15.00 alle 19.00, fino al 6 giugno 2022.

 

“È con grande piacere portare nelle nostre sale le opere di arte contemporanea di Mario Ricci, affiancato dal  nome  di  fama  internazionale  di  Gianluca  Marziani  –  spiega  la  Presidente  dell’Istituzione  di  Palazzo Rospigliosi, Andrea Celeste Peronti. – Le sue opere, fin dal primo momento, hanno colpito il mio animo e immaginarle all’interno delle nostre Sale sarà una grande emozione ed esperienza per tutti. Nell’arco del mese, inoltre, sono previste iniziative inerenti la mostra e su tematiche che riguarderanno l’aspetto socio- culturale”.

 

RANE è un titolo che richiama Fedro e Aristofane ma che, al contempo, simboleggia la coscienza estetica dell’artista, il suo approccio mimetico che anima le radici geometriche del minimalismo – da Daniel Buren a Sol LeWitt, da Niele Toroni a Richard Tuttle – per trasformare l’astrazione in un campo  di  fugaci apparizioni figurative. Le rane diventano il simbolo del suo modus interiore, uno sguardo ideale tra apparizione e scomparsa, un esserci sul filo sottile che unisce la superficie sfocata del guardare (le rane sotto il filo d’acqua) al perimetro definito del vedere (le rane sopra l’acqua dello stagno).

 

Palazzo Rospigliosi, nato intorno al 1000 come fortilizio difensivo della Famiglia Colonna, fu distrutto e riedificato più volte, raggiungendo pieno splendore quando Zagarolo divenne Ducato sotto Pompeo Colonna. Quest’ultimo, dopo aver aggiunto le due grandi ali, chiamò Frescanti ad abbellirne gli interni. Nel 1622 Pierfrancesco Colonna lo vendette a Ludovico Ludovisi, grande collezionista d’arte che lo arricchì di quadri e sculture. Nel 1667 i Rospigliosi acquistarono il Palazzo grazie alle rendite dei Pallavicini loro parenti. Nei primi dell’800 parte del Palazzo ospitò il convento fondato da Suor Maria Bettini. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale vide ulteriori trasformazioni, finché diventò ospedale militare per i soldati provenienti dal fronte di Anzio e Cassino. L’ultima proprietaria fu la Principessa Elvina Pallavicini che lo vendette al Comune di Zagarolo nel 1979.

Il disegno antologico per Palazzo Rospigliosi pesca tra le molecole tematiche di una carriera cosciente e ragionata, qui distribuita in sei stazioni (ambienti) che raccolgono una selezione di pitture intuitive, sapienti

 

per mimesi e allegorie, ma anche alcuni oggetti scultorei che ai quadri appartengono per genia antropologica e comune lessico visivo.

 

Scrive nel catalogo Gianluca Marziani: “L’universo autorevole di Mario Ricci è silenzioso come il suono primaverile della sua Genazzano, a pochi metri dal Castello Colonna, nel cuore di un piccolo studio ipogeo che sfiora il verde aerobico del teatro boschivo. Per immergermi nel suo lessico solitario serviva una scrittura oltre il rumore urbano, un’analisi critica che ragionasse secondo solitudini specchianti  e permeabili, riconoscendo all’opera la capacità esegetica di plasmare mondi senzienti dentro il silenzio ambientale, proteggendo così il percorso molare del quadro (i vari cicli di una carriera omogenea) con una gestione molecolare dello sguardo (la visione unitaria delle apparenti distanze tematiche)…”.

 

La mostra si divide lungo sei sale che razionalizzano le principali tematiche in un gioco di estroflessioni apparenti e riflessioni ambientali. Le estroflessioni giocano con la retina e la luce, creando ponti semantici tra noi e il quadro, spingendoci a ripensare i confini della percezione, la permeabilità degli immaginari, il ruolo stesso della pittura nel contesto del mondo tecnologico. Mario Ricci ci trasmette l’emozione di un approccio solitario che si reinventa attraverso strumenti millenari, plasmandosi sulle molteplicità per poi trasformarsi nell’abito liquido di ogni (suo e nostro) mondo, ogni storia, ogni visione.

 

I MONOCROMI rappresentano la copertina ideale del suo codice di traduzione del mondo. Sono blister di medicinali in pasticche o pillole, ingranditi e interpretati con minimi scarti dal plausibile farmaceutico. Hanno tinte piene e accese, tagli spazialisti o perimetri anormali, talvolta sui bulbi compaiono paesaggi o frammenti di quotidiani, come se quel paesaggio monocromo curasse lo sguardo con la sua natura di contenuto e non più di contenitore.

 

Gli ANIMALI attraversano le tele come fossero in movimento, dentro e oltre i perimetri del quadro, verso le direzioni incostanti del mondo reale. Rane, tori, mosche, coccodrilli, squali che sembrano tagliare l’istante della tela, la sua spazialità monocroma che d’improvviso, lungo l’attimo veggente della pittura, diventa superficie vitale, increspata sul bordo, appena estroflessa da uno dei trucchi ottici che il pennello possiede per natura sciamanica.

 

I NERI non pretendono l’estroflessione faunistica ma adottano il riflesso opaco delle luci interiori, un assorbimento metafisico che solo il nero può modulare per variazioni infinitesimali, dando al suo estremismo oscuro un margine di rinascita della luce interiore. Tutto partì da un pentagramma gotico di sedie vuote, una platea di giudici invisibili che avrebbe condotto i quadri neri nel mondo dei fantasmi vivi: verso le sagome odierne di migranti reali, deprivati dei lineamenti per trasformarsi nell’archetipo di un interrogativo morale.

 

VEDO BENE VEDO MALE, ovvero, tele a righe bianche e gialle su sagome umane – come alert sociali con una miopia indotta – che spostano il ragionamento sui modi in cui percepiamo l’immagine seminale, dove le bande alla Daniel Buren diventano la password di decifrazione generativa, il modo consono per attivare lo sguardo molare.

 

Le SOTTOTELE, formate da strati che incitano al ripensamento ottico, ci guidano nelle ambiguità dietro ogni immagine, nel limite di ogni apparenza superficiale, nel valore che riveste il simbolo quando l’artista plasma l’opera attraverso stilemi solitari e rizomatici. Le citazioni fuligginose divengono ombra luminosa, positivo radiografico del ciclo coi neri, sagome elettriche di un’archeologia leggera della memoria visiva.