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Settanta anni fa Cesare Pavese vinceva il Premio Strega con “La bella estate”, l’ultimo trionfo della sua vita

© Fondazione Cesare Pavese

Settanta anni fa, il 24 giugno 1950, due mesi prima di morire, Cesare Pavese vinceva il Premio Strega con “La bella estate”, raccolta di tre racconti edita da Einaudi. Il trittico era composto dal racconto omonimo “La bella estate” insieme a “Il diavolo sulle colline” e “Tra donne sole”, scritto tra il 1940 e il 1948 e pubblicato nel 1949.

“La bella estate” rappresenta uno degli ultimi atti della produzione letteraria di Pavese, anche se non ha goduto di particolare successo da parte della critica, soprattutto in tempi recenti. Altre sono infatti le opere dell’autore piemontese assunte come veri e propri capisaldi della sua scrittura: “La casa in collina” (1948), “La luna e i falò” (1949), “Il mestiere di vivere” (postumo, 1952). Tuttavia questa è un’opera cruciale per capire la personalità dello scrittore e forse la raccolta è la più significativa per quanto riguarda l’immedesimazione dello stesso autore.

C’è un riscontro autobiografico forte e neanche troppo velato nei tre racconti, ma forse quello che più convince, per quel senso di turbamento e fallimento che faceva di tanti suoi personaggi delle vittime sacrificali (come Gisella di “Paesi tuoi” o Santina de “La luna e i falò”), è proprio l’omonimo “La bella estate”. Protagonista è Ginia, un’adolescente vergine, timida e introversa all’universo del vizio, dell’amore carnale, della bohème. Un universo inteso nel senso più equivoco e squallido da un Pavese intimamente moralista e restìo, come tutti gli autentici introversi. Ginia è innamorata di Guido, un giovane e attraente pittore, che la seduce. È l’inizio di un amore disperato, che si consuma tra vane attese e illusioni, e si concluderà nel tempo fugace di una stagione.

Un romanzo dai forti chiaroscuri, commovente e delicato che narra l’iniziazione alla vita adulta. È la scoperta dell’intimità, dei sensi e della tentazione nel passaggio cruciale dall’adolescenza all’inevitabile perdita dell’innocenza, tema molto caro a Pavese. L’identificazione di Ginia con l’autore piemontese è fortissima, cosicché l’angosciosa vicenda della giovane per diventare una “vera donna” si può leggere anche al maschile, e spiega così l’ineludibile fallimento finale: «Tutta la mattina pensò di ammazzarsi, o almeno di essersi presa la polmonite […] Ma ammazzarsi così non valeva la pena. Era lei che aveva voluto fare la donna e non c’era riuscita».

Ginia è una vittima di sé stessa, come lo fu Pavese: ella non era riuscita a concludere felicemente il suo itinerario di formazione e non era diventata una vera donna, così come Pavese non riuscirà mai a diventare uomo appagato dalla vita, un uomo che ama ed è riamato. Così, dalle parole di Ginia, emerge tutto il profondo senso di insoddisfazione e il conflitto esistenziale – tra ambizioni, sofferenze e delusioni – che sarà una costante nella vita di Cesare Pavese. E neanche il Premio Strega, che prometteva di essere il suo “massimo trionfo” – come scrisse nel suo diario -, riuscirà a consolare.

Un rammarico grande di Pavese, da sempre inquieto e in preda a un profondo disagio esistenziale, sarà proprio quello di non essere mai stato amato veramente e totalmente da una donna. E di innamoramenti ne ebbe tanti. Tutte le donne da lui amate non lo corrisposero mai o furono amori che si consumarono presto, come quello per l’attrice statunitense Constance Dowling, l’ultimo della sua vita.

Pavese conobbe Constance a dicembre del 1949 mentre era a Roma dopo un brevissimo soggiorno a Milano; lei aveva recitato in “Riso amaro”, una pellicola di Giuseppe De Santis con Vittorio Gassman e Raf Vallone. Prima di quell’incontro, lo scrittore aveva formulato più volte nella sua mente l’idea del suicidio, tuttavia quella conoscenza risvegliò in lui nuove emozioni, anche se per poco tempo. Scriveva nel suo diario:

«Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. […] Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell’armatura. Eri ragazzo. L’idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire».

Dalla sua costante depressione, Pavese trovò in Constance un nuovo appiglio, un nuovo amore che fosse finalmente reale, ma l’attrice dopo averlo illuso ripartì presto per l’America, lasciando lo scrittore amareggiato e infelice. A lei dedicherà i versi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

In una bellissima e struggente lettera del 1950, “l’ultimo guizzo della candela” indirizzato alla diciottenne Romilda Bollati, Pavese scriveva:

«Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo? E ricordarti che, per via del lavoro che ho fatto, ho avuto i nervi sempre tesi, e la fantasia pronta e precisa, e il gusto delle confidenze altrui? E che sono al mondo da quarantadue anni? Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto».

Una dichiarazione a cuore aperto di tutto il suo vivere, di un malessere profondo che impegnò la sua intera esistenza e di cui fu prigioniero, e mai riuscì a sperimentare l’amore ricambiato. E come Ginia de “La bella estate” lasciò incompiuto il suo percorso, ma solo dopo aver vinto il Premio Strega.