“La mia sera” è una delle liriche più celebri di Giovanni Pascoli, inserita nella raccolta Canti di Castelvecchio (1903). In questa poesia, il poeta sviluppa un confronto suggestivo tra la sera della giornata e la sera della vita, intrecciando elementi autobiografici e simbolici in un’atmosfera di dolce malinconia.
La poesia si apre con un’immagine di quieta natura, che ha appena superato la tempesta: la pioggia è cessata, il cielo si rasserena, e gli uccelli tornano ai nidi. Questo paesaggio serale, apparentemente semplice, è carico di significati simbolici: la sera diventa metafora della pace interiore, della fine delle sofferenze, ma anche del ritorno alla madre e al grembo dell’infanzia perduta, temi ricorrenti nella poetica pascoliana.
Pascoli fonde mirabilmente la dimensione esterna (la campagna, la natura, il crepuscolo) con quella interiore (i ricordi, il dolore, la ricerca di consolazione). Il ritmo della poesia è musicale e dolce, con versi endecasillabi e settenari disposti in strofe regolari, che accompagnano il lettore in un lento abbandono. I suoni, come il “tintinnio” delle stelle o il “plin” della goccia che cade, creano un’atmosfera ovattata, quasi fiabesca, che esprime bene il desiderio di rifugio e di tenerezza.
Nel finale, Pascoli compie un chiaro ritorno al tema della madre, figura fondamentale nella sua poesia: il ricordo di quando, da bambino, tornava a casa dopo i giochi serali e la madre lo accoglieva. Questo ricordo infantile diventa immagine del riposo eterno, dove il dolore si placa e tutto ritorna alla calma originaria.
“La mia sera” è una lirica intensa e toccante, in cui si manifesta in pieno il “fanciullino” pascoliano: quella parte innocente, sensibile e visionaria che coglie la bellezza nascosta nelle piccole cose e cerca consolazione nel passato e nella natura. È una poesia che parla al cuore, con semplicità e profondità, trasformando il quotidiano in simbolo e la malinconia in dolcezza.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.