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“Oltre le catene”, il romanzo di Domenico Mecca è un viaggio nel cuore del continente africano

Un continente misterioso e affascinante: l’Africa! Paesaggi mozzafiato, colori sfavillanti, profumi d’equatore; ambienti tempestati da gravi emergenze sanitarie e lacerati da mille contraddizioni; personaggi visionari che agiscono motivati da ragioni umanitarie e dall’instancabile ricerca di sé. Tutto questo e svariati altri temi contribuiscono a comporre una trama originale e vibrante di passioni, in un bel romanzo dal linguaggio ricco e leggiadro che travalica i confini letterari.

DOMENICO MECCA è nato ad Avigliano, in provincia di Potenza, il 9 maggio 1963. Sposato con due figli. Medico infettivologo, ha lavorato per molti anni in diversi ospedali della Liguria. Il suo sogno professionale è sempre stato fare un’esperienza di lavoro all’estero. Per questo motivo alcuni anni fa  si è recato in Uganda per 3 mesi e periodicamente in Romania per implementare e seguire un progetto di prevenzione della tubercolosi. Per 16 anni si è occupato di ricerca e sviluppo di nuovi antivirali e antibiotici. Da più di un anno lavora come medico libero professionista.

Come è nato il romanzo Oltre le catene?

E’ nato in realtà più di venti anni fa, un anno dopo il ritorno dalla mia esperienza professionale in Uganda. Allora l’idea era quella di scrivere un diario, poi con gli anni, esattamente tra il 2017-2018, si è trasformata in un romanzo che ripercorresse alcune vicende di quella esperienza. La forma del romanzo mi consentiva, inoltre, di inventare alcuni episodi e alcuni incontri che non mi sono mai accaduti durante il mio soggiorno africano.

Ti va di presentare ai lettori della rubrica il personaggio protagonista Luciano Verdi?

Innanzi tutto Luciano Verdi non sono io. Ho deciso di descriverlo molto diversamente da come sono io e, per certi versi, per come in certe situazioni vorrei essere io. E mi sono divertito moltissimo! Il potere della scrittura e della fantasia. Io sono riflessivo e razionale, mentre Luciano Verdi è istintivo e con l’istinto affronta la realtà e le situazioni che non capisce subito o che vanno fuori dalla sua zona di comfort. Infine, ma non meno importante, Luciano Verdi ha una storia d’amore che io non ho mai vissuto in Africa. Abbiamo, però, in comune un paio di cose: siamo entrambi medici infettivologi, entrambi siamo partiti per l’Africa con l’idea “occidentale” di salute e medicina. Infine abbiamo la stessa idea di società e di giustizia.

Come hai narrato l’Africa dal punto di vista sanitario e sociale, e quale impatto hai voluto suscitare nei lettori?

L’aspetto sanitario in Uganda – e penso nell’intera Africa – è affidato alla buona volontà degli amministratori delle Direzioni Sanitarie e degli espatriati delle Organizzazioni non Governative (ONG), che, aspetto non secondario, ci mettono i finanziamenti più cospicui. Nell’ospedale, se così si può chiamare usando un eufemismo, nel quale si trova a lavorare Luciano Verdi i ricoveri avvengono dopo che gli stessi pazienti hanno comminato delle ore per raggiungerlo. Inoltre devono portarsi in dote un gruzzoletto da spendere per eventuali approfondimenti diagnostici (sto parlando di lastre o tutt’al più ecografie eseguite con apparecchiature vetuste) e almeno un parente che prepari il pasto. In Africa il concetto di morte è completamente diverso da quello occidentale. La morte è vissuta come un evento naturale al quale neppure la possibilità di un ricovero o di una terapia in certi casi possono evitare. Essa non è tanto nelle mani del medico o del personale sanitario quanto dell’ineluttabile e fisiologico svolgersi della vita.

Quali dinamiche fra colleghi medici hai messo a fuoco nella storia? E cosa ci insegna il libro da questo punto di vista?

Luciano Verdi ha alcuni scontri con colleghi e con taluni esponenti della ONG per la quale lavora in Uganda. Gli scontri e i conseguenti alterchi sono essenzialmente determinati da una diversa visione della vita. Per la ONG erano prevalenti la visione religiosa della vita e della morte e, con essa, il tentativo di fare proselitismo. Per Luciano Verdi era prevalente fare emergere i bisogni concreti di salute e di assistenza sociale degli assistiti e a quelli, solo a quelli, tentare di dare una risposta con gli scarsi mezzi a disposizione. Nel romanzo ho volutamente marcato questa differenza, perché volevo che rimanesse al lettore che in Africa, e in generale nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo, se vuoi veramente fare qualcosa per loro che rimanga nel tempo, anche quando tu sarai andato via, devi costruire una comunità sociale che parta dalle necessità locali e che con lei le affronti. Il resto è proselitismo ideologico o religioso sterile.

Quali emozioni e sentimenti speri di trasmettere attraverso la storia che hai narrato?

Nel romanzo sono narrate storie e vicissitudini che in parte ho vissuto davvero e in parte no. Il filo conduttore, che è poi quello che mi ha insegnato la mia esperienza professionale in Africa, è quello di vivere profondamente l’Africa, nei suoi bisogni e nelle sue contraddizioni, mettendo da parte i tuoi pregiudizi occidentali su come sia meglio o più giusto prendersi cura della salute  e dei bisogni sociali degli africani, impostando ideologicamente o religiosamente la loro vita. Le contraddizioni dell’Africa sono tante: inerzia per molti aspetti, una sorta di ineluttabilità della vita. Non bisogna contrastarle, bisogna avere il coraggio di accettarle e di capirle per poterle affrontare insieme a loro, ma mai e poi mai contro di loro. In questo modo l’Africa insegna molto di più di quanto tu possa pretendere di insegnare a lei.

A quale messaggio allude l’immagine di Oltre le catene?

L’immagine, ci tengo a dirlo perché la considero molto bella, è stata scelta da mia moglie. Evoca una delle tante strade di terra rossa che si incontrano in Africa e che io stesso percorrevo con la moto in mia dotazione per raggiungere dal compound dove ero ospite l’ospedale. Inoltre, e non meno importante, richiama al fatto che la vita è un percorso durante il quale lo sguardo deve essere il più possibile rivolto all’orizzonte, esercitandosi in quella apertura mentale che ti consente di affrontare la vita senza pregiudizi mentali e comportamentali.

Cosa lascia nel cuore l’esperienza come medico missionario in Africa e cosa emerge dalla storia a tal proposito?

In fondo a questa domanda ho già risposto. A me ha insegnato che la vita è un viaggio, un’avventura che, al di là dell’aspetto solo sanitario, puoi affrontare nella sua interezza solo andando oltre le catene – appunto il titolo – del tuo vissuto, di ciò che ritieni giusto o sbagliato, di ciò che ritieni sia buona o meno buona medicina, di ciò che ritieni siano i confini di una buona vita o di una buona morte. Per andare oltre le catene, ci vuole molto, molto coraggio. Con la sorpresa di venirne abbondantemente ripagato.

A chi consiglieresti la lettura del tuo romanzo?

Ho la pretesa di rispondere a tutti, ma, probabilmente perché ho nel cuore una presentazione del romanzo che ho fatto in una scuola, peraltro molto chiassosa, lo consiglierei ai giovani. Ancora oggi, a 61 anni, non penso di avere da insegnare niente a nessuno, ma se nel cuore e nelle menti di alcuni giovani rimanesse anche solo un briciolo di quello che ho risposto alla domanda precedente, considererei il romanzo come un romanzo di successo.