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Immobilità umana e mobilità vegetale nel “Giardino della natura profonda” di Italo Carrarini (Casale Anio Novus)

 Tivoli – Qualche giorno fa al Casale Anio Novus (tra Tivoli e Castel Madama), l’artista Italo Carrarini, all’interno della rassegna dedicata a bioregionalismo ed ecosofia, ha inaugurato una sua installazione, che occuperà d’ora in poi una zona del terreno del Casale, al di là del biolago.

L’opera s’intitola Giardino della natura profonda, ed è concepita – visto il contesto in cui è stata inaugurata – innanzitutto come omaggio al bioregionalismo, in generale, e a precisi bioregionalisti, in particolare: costituita di trentasei lapidi orizzontali disposte a scacchiera, l’opera ospita infatti, su ogni singola lapide, i nomi di importanti pensatori bioregionalisti, incisi sulla pietra in maniera tenuemente luminescente, in modo che possano vedersi (o meglio, intravedersi: tornerò più avanti sul valore di questa scelta) sia di giorno che di notte. E proprio di notte (20 giugno), infatti, è stata inaugurata l’opera, che ha mostrato per primo il lato più suggestivo e crepuscolare, tra i due che la informano.

Oltre a quella di manifestarsi in veste diversa se notturna e se diurna, ulteriore “temporalità” alla base del concept del luogo è la dialettica che le lapidi intessono con l’erba circostante: la pietra è infatti calata in un manto erboso che, dal momento dell’inaugurazione non verrà più tagliato e sarà lasciato, invece, sottoporsi alle leggi della stagionalità e del tempo naturale. In opposizione, il prato intorno continuerà ad essere manutenuto, in modo da far risaltare ancora di più la selvaticità dell’erba interna all’opera.

Questa descrizione rapida del Giardino pone subito in evidenza come l’operazione di Carrarini preveda innanzitutto una sua distensione del tempo, una concezione dell’opera smaterializzata e comprendente anche il significato della durata, dell’età e della trasformazione. La stessa concezione e attuazione dell’opera, del resto, estesa tra il 2003 e il 2019 – ci dice l’unica lapide eretta verticalmente – occupa più di un quindicennio. Dividiamo e studiamo, allora, quelle che chiameremo “ciclicità del giorno” e “ciclicità delle stagioni”, per comprendere le caratteristiche dell’opera.

Per quanto riguarda la prima, come si è detto il Giardino ha un duplice aspetto, notturno e diurno (volendo obbedire a questa distinzione superficiale: in verità ha un aspetto diverso a seconda di ogni cambiamento di luce nell’arco delle ventiquattr’ore, e poi dei trecentosessantacinque giorni: azzardatevi voi nel conto degli aspetti). Il colore dei nomi incisi, però, tendente al verde acqua, non permette di leggerli con distinzione né di giorno né di notte: col sole appaiono appena evidenziati sulla lapide bianca; con le stelle si notano più come chiazza luminescente che come reale incisione.

Quale il senso di questa quasi-non-leggibilità? C’è, io credo, anzitutto il desiderio di ricollocare la dimensione umana in un contesto naturale ben preciso e separarla da quella che chiamerei “illusione di civiltà” (l’idea, tutta da verificare, di aver “risolto” il mondo con l’invenzione della tecnica e della società) tipicamente umana. Non si dimentichi che ciò che appena riluce è il nome umano: accanto all’omaggio diretto al bioregionalismo, c’è in questa scelta stilistica un doppio livello semantico, che comprende la contestazione della concretezza del linguaggio umano, del nome degli uomini, che è invece rivelato nella sua pura convenzionalità e in qualche modo dissolto nella pietra.

Veniamo così alla ciclicità del giorno: se il Giardino obbedisce alla (o meglio, s’inserisce nella) logica del giorno (della rotazione della Terra), lasciando del nome umano solo una parvenza di se stesso (ed è il nome del bioregionalista; di colui che cioè cerca il recupero del contatto naturale: il dissolvimento del suo nome è la sua vittoria), allo stesso tempo obbedisce alla logica annuale. Le piante lasciate incolte potranno infatti ricondursi sotto l’egida della struttura stagionale, farsi verdi quando è tempo della verdura, farsi gialle morendo. Non c’è più – ce lo ricorda proprio il contrasto col prato che circonda l’opera – la costrizione innaturale alla recisione, alla crescita alterata. Di fatto è una rivoluzione (la logica annuale è infatti quella della rivoluzione della Terra) che restituisce al vegetale la proprietà di se stesso, che è l’obbedienza al tempo della natura, non a quello del decespugliatore.

Di fronte a questa rivoluzione – intesa come ribaltamento dell’autorità e della priorità – l’umano è invece demansionato a staticità assoluta. Il nome umano è inciso sulla pietra: se la stagione inciderà costantemente sullo statuto vitale del prato non più manutenuto, la pietra non verrà in nessun modo scalfita (lasciamo per ora da parte il lunghissimo lavoro degli agenti esogeni sulla roccia, anche se aprirebbe ulteriori e interessanti canali d’interpretazione), e farà perciò risultare maggiormente l’opposizione tra mobilità naturale e immobilità umana. Ma non solo la pietra: è il nome stesso dell’uomo a risultare immobile e immutabile a confronto dell’erba. Che questa staticità sia la forza dell’artificiale in grado di battere la mutevolezza della natura è una lettura forse superficiale: è, semmai, l’esatto opposto, con la pietra e il nome sconfitti dall’incapacità di adattarsi alla costante metamorfosi del contesto naturale, come invece riesce a fare l’erba, nascendo e morendo costantemente e ciclicamente. E le parole, infatti, giorno o notte che sia, riescono a leggersi pochissimo.

L’opera di Carrarini è dunque attraversata da tre direttrici di significato, costruita ognuna nello spazio che intercorre tra due poli opposti. C’è la dialettica della luce, che oppone il giorno e la notte; la dialettica del movimento, che oppone la morte delle lapidi (e dei nomi) alla vita dell’erba; la dialettica dell’ordine naturale, che oppone la libertà del Giardino alla costrizione artificiale del prato manutenuto. In tutti i casi l’artificiale ne esce sconfitto, disimparato com’è ad adeguarsi alle logiche della natura, circolari non rettilinee, flessibili non impositive.

Ed ecco quindi che l’opera di Carrarini si sostanzia non solo come denso, stratificato prodotto di installazione concettuale (in verità anche molto materiale, con il reale coinvolgimento dell’energia naturale), ma anche come schietto e forte invito etico: ricollocare l’umano all’interno della sapienza della natura, che è poi anche la sua sapienza: occorre solo riscoprirla, come probabilmente hanno saputo fare i bioregionalisti che le lapidi del Giardino della natura profonda vogliono celebrare.