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Geo-gastro-musicologie: su “L’osteria del palco” di Francesca Amodio

Palombara Sabina – Suonare non è semplicemente imbracciare uno strumento. Dietro il gesto-epicentro del musicista riposano una lunga trafila di smottamenti tellurici: due di questi – lo spostamento nello spazio e l’arte del cibo – ce li racconta Francesca Amodio, originaria di Palombara Sabina, che con il suo L’osteria del palco. Storie gastromusicali di musicisti on the road, uscito per Polaris nel 2020 e arricchito dalla prefazione di Omar Pedrini, affronta l’interconnessione dei tre aspetti.

Nato in occasione del venticinquennale del Premio MEI di Faenza, l’esordio librario di Amodio è una collezione di interviste a musicisti italiani indipendenti legati al MEI, che raccontano qui, esattamente, storie legate all’esperienza del tour e, soprattutto, ai ristoranti più presenti – per significato o ricorrenza – nei loro vagabondaggi. Tra le molte presenze, nomi di spicco della nuova ondata indipendente, come Fulminacci, oppure vecchie (si fa per dire) glorie, di fama ormai consolidata (come Roberto Gatto, Zen Circus, Paolo Benvegnù, Meganoidi e molti altri).

La mappa che lega questi nomi non si limita però al solo riferimento al MEI; dalla lettura delle interviste – precedute sempre da un’associazione surrealista piatto/artista suggerita dall’autrice – emerge una certa interpretazione dell’esistenza fondata essenzialmente su una nuova e socialmente accettata forma di nomadismo. Come scrive Amodio, nell’introduzione, «Il viaggio […] va a suggellare i momenti migliori della vita vera del musicista, quella del tour, in cui spesso ci si affida al caso e ci si lascia travolgere dal destino degli eventi». Quella del musicista, insomma, è una forma di precarietà, ma in senso (anche) positivo: al tuffo costante nelle strade e nelle cose del mondo corrisponde la possibilità dell’inatteso, quindi la sua poeticità, che spesso il sedentario, “il normale” sacrifica alla stabilità di una vita risolta una volta per tutte. Non a caso Amodio chiama i suoi intervistati, tutti, «outsider», ne coglie in primis la dimensione “altra” in cui – nel bene e nel male – devono muoversi.

Così i racconti di La Crus, A Toys Orchestra e soci, insistono spesso sulla sorpresa, sul ristorante trovato per caso; possono cioè fondare la percezione del proprio lavoro sull’epica intrinseca alle loro giornate, su quella che – romanticamente – chiameremmo avventura.

Ma la coincidenza tra geografia, gastronomia e musica non si offre solo nella dimensione dell’aleatorietà del viaggio. Da un altro lato, anzi, quella segnala una forte solidità, che chi scrive vuole evidenziare perché a rischio estinzione: la solidità, dico, la congiuntura, tra spazio abitato e significato della propria esistenza, materiale e non. Molti racconti, infatti, si soffermano sui prodotti tipici – e la raccolta di ristoranti a fine libro è, a tutti gli effetti, un Itinerario gastromusicale – nonché sulle relazioni intessute con i proprietari dei locali, con gli incontri fatti per via. Con, in generale, gli uomini che stanno dietro le produzioni.

Non si tratta, insomma, di programma turistico, ma, profondamente, di una costruzione di significati aderente al modello che la produce e all’esperienza che la provoca. Sul viaggio, cioè sulla geografia, si innestano l’arte e il lavoro, sul lavoro si innesta la scoperta del cibo, che – prodotto nello stesso spazio in cui si consuma – si innesta a sua volta sulla geografia, chiudendo il cerchio. Dire che «una persona […] è l’artista che è proprio in base a ciò che mangia», come scrive l’autrice, è perciò una dichiarazione ben più fondante di quanto sembri; è insistere – come questo libro fa – sulla coincidenza tra spazio, lavoro e vita. Una coincidenza che la storia dell’Occidente fa di tutto per annientare.