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Come oggi il rastrellamento nazista nel ghetto di Roma

Per non dimenticare mai

Roma – All’alba del 16 ottobre del 1943, un sabato, 365 uomini delle varie polizie naziste di Roma bloccarono tutti gli accessi del Ghetto e arrestarono 1259 persone, perlopiù anziani, donne e bambini, perchè come sembra nei giorni precedenti si era diffusa la voce di un imminente rastrellamento di uomini validi che erano quindi scappati.

Le vittime furono ammassate al Collegio Militare Italiano a via della Lungara. Il giorno dopo, furono rilasciati coniugi non ebrei, figli di matrimoni misti e non ebrei.

Il 18 ottobre 1022 persone, tra adulti e bambini, furono trasportate allo scalo ferroviario della Tiburtina e caricate su vagoni sigillati di un treno che giunse ad Auschwitz-Birkenau la notte del 22 ottobre. 839 su 1022 furono condannati subito alle camere a gas.

Tornarono a casa solo in 17

In occasione dell’anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma, la Biblioteca Istituzionale e l’Archivio Storico invitano a ripercorrere le fasi preparatorie del crimine orribile, perpetrato metodicamente dagli occupanti nazisti il 16 ottobre 1943, con il supporto e la collaborazione di milizie italiane fasciste, attraverso le pagine dedicate alla deportazione di Roma del libro di Liliana Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1994.

Dopo la Conferenza di Grossen Wannsee del gennaio 1942 che aveva pianificato lo sterminio di tutti gli ebrei d’Europa, i nazisti pensavano di poter attuare immediatamente e con facilità il progetto di internamento e deportazione in Italia, paese alleato la cui legislazione antiebraica era del tutto simile a quella tedesca. Incontrarono invece l’opposizione decisa delle autorità militari e diplomatiche italiane, ma tutto cambiò dopo l’Armistizio dell’8 settembre che trasformò l’alleanza con la Germania in occupazione militare. In questa fase, sottolinea l’Autrice, emerge come “l’Italia, pur praticando un antisemitismo di Stato, non pensasse a soluzioni sterminazioniste”.

Con la caduta di Mussolini, il governo del generale Badoglio, per non allertare troppo l’alleato tedesco, non abrogò le leggi antiebraiche ma al contempo rassicurò le Comunità Israelitiche Italiane sul rispetto solo formale della persecuzione. Alla firma dell’Armistizio, dopo l’8 settembre, i tedeschi misero in atto il piano di invasione dell’Italia, liberarono Mussolini, prigioniero al Gran Sasso e lo misero a capo della Repubblica Sociale di Salò, mentre la famiglia reale e le autorità politiche e militari fuggivano  a Brindisi, sotto il controllo degli Alleati.

Un aspetto colpisce nella descrizione degli avvenimenti: “gli episodi del mese di settembre non erano serviti a mettere le famiglie ebraiche sull’avviso, anche per la scarsa informazione che se ne era avuta […] Profughi giunti in Italia, per lo più da Germania e Austria potevano testimoniare di un clima di violenza e di intolleranza, non certo di massacri o di camere a gas, di cui, per la loro dislocazione in territori lontani, non erano neppure al corrente”.

Gli ebrei italiani poi erano persuasi che in Italia non si potessero verificare eccessi di violenza e persecuzione, anche per la presenza del Vaticano, una garanzia contro eventuali efferatezze belliche. Ed invece, immediatamente fu eseguita la politica di sterminio di tutti gli ebrei presenti sul territorio nazionale, italiani e stranieri, facilitata del resto dalla metodica campagna di censimento della popolazione ebraica messo in atto dal governo fascista dopo il 1938 e dal radicato condizionamento in senso antisemita dell’opinione pubblica.

La razzia del 16 ottobre 1943 contro il più antico e significativo nucleo ebraico d’Italia doveva simboleggiare, tra l’altro, la compiuta sudditanza del paese agli occupanti nazisti che avevano dislocato sul territorio un imponente apparato militare e poliziesco.

Il 26 settembre, il comandante della Gestapo locale, Herbert Kappler, convocò il presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, Dante Almansi, e il presidente della Comunità di Roma, Ugo Foà, per imporre la taglia di 50 kg di oro, entro 36 ore, pena la deportazione di 200 ebrei.

Tutto l’oro fu raccolto nei tempi e consegnato ai nazisti, ma in realtà la “macchina” della deportazione era già stata avviata, anche se i funzionari delle SS locali ritenevano più prudente deportare gli ebrei di Roma in campi di concentramento o lavori forzati, per opportunità politica, specie nei confronti del Vaticano.

Tuttavia, prevalse, purtroppo, la soluzione più tragica, quella dello sterminio, condotta e portata a termine dal fiduciario di A. Heichmann, l’SS Dannecker che si attestò nel quartier generale di via Po, in un anonimo albergo.

Grazie agli elenchi del censimento della popolazione ebraica stilato negli anni dal Ministero degli Interni fascista e a quello dei contribuenti alla taglia dei 50 kg di oro, sequestrato agli archivi della comunità ebraica, unito al lavoro metodico e preciso della squadra di poliziotti italiani, associata da Kappler, agli ordini del commissario aggiunto Gennaro Cappa, si procedette all’operazione in modo rapido e capillare.

Nel frattempo, il Vaticano si limitava ad esprimere preoccupazione e una lieve disapprovazione all’ambasciatore tedesco. L’estrema cautela dell’atteggiamento del Papa fu giustificata come “dettata dalla sincera convinzione di scegliere il male minore per evitare un peggioramento della situazione degli ebrei”. 

L’autrice ricorda, tuttavia, “che, in contrasto con le posizioni della diplomazia vaticana […] ampia e generosa fu l’assistenza di singoli ecclesiastici, conventi, alti prelati, verso gli ebrei braccati, assistenza della quale il Pontefice doveva essere al corrente”.