Carsoli, grande partecipazione per l’incontro “Libere di essere noi stesse”: focus sulla condizione della donna, spirale violenta e prevenzione
Carsoli – Un momento di condivisione, di confronto e di grande emozione per l’incontro “Libere di essere noi stesse” dedicato al tema delle donne e della violenza di genere. L’evento si è svolto presso la Sala Consiliare del Comune di Carsoli martedì 25 novembre, in occasione della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Erano presenti la Vicesindaca dott.ssa Alessandra Nazzari, l’Assessore alle politiche sociali, pari opportunità e pubblica istruzione dott.ssa Rosa De Luca, l’ostetrica dott.ssa Irene Cimei, la psicologa dott.ssa Maria Chiara Mazzei e la giornalista dott.ssa Elisabetta Zazza. Un quintetto di professioniste, ognuna delle quali ha delineato, dal proprio punto di vista professionale, il quadro attuale della condizione della donna e della violenza di genere.
Dopo i saluti istituzionali della Vicesindaca Alessandra Nazzari, che ha sottolineato l’importanza della prevenzione e la necessità di fare rete come forme di constrasto e di supporto alle donne vittime di violenza, la parola è passata alla giornalista Elisabetta Zazza, che ha illustrato, attraverso un excursus storico, la lunga e faticosa lotta per uscire da una condizione di subordinazione della donna da parte dell’uomo e arrivare alla conquista della dignità sociale, della libertà e dei diritti, con un focus giornalistico sull’uso di un linguaggio corretto che renda giustizia alle donne vittime di violenza.
Parlare oggi di violenza di genere – ha spiegato la giornalista Elisabetta Zazza – significa affrontare non solo un’emergenza sociale, ma anche un lungo cammino fatto di silenzi, di ingiustizie, di disuguaglianze che per secoli hanno relegato la donna alla sfera domestica senza diritto alcuno, e alla violenza come un fatto privato da tacere per evitare il disonore. Ma di chi? Per secoli la donna che subiva violenza era doppiamente vittima perché era anche colei che portava disonore alla propria stirpe perché stuprata, e senza alcuna conseguenza giuridica da parte dell’uomo; motivo per cui fino al 1981 esistevano ancora il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, poi finalmente cancellati.
La società patriarcale ha costruito intorno al “gentil sesso” un sistema di controllo, dove la sottomissione era considerata una virtù e la libertà una minaccia all’ordine familiare e morale. La donna era considerata un essere fragile, inferiore, da proteggere o da possedere. Non aveva diritto di parola, di opinione, né diritto di scelta.
La violenza sulle donne ha radici profonde, vecchie come l’uomo (e come la donna), intrecciate con la storia sociale, culturale e giuridica del nostro Paese. Solo negli ultimi decenni, a partire dagli anni ’70, le donne hanno alzato la voce: sono nati i centri antiviolenza, le case della donna, i consultori, le case rifugio. Le femministe sono scese in piazza e hanno detto “stop” alla violenza di genere, non solo fisica, ma anche psicologica, morale, economica, lavorativa; si sono ribellate e hanno combattuto contro il pregiudizio, la disuguaglianza, la disparità di salario, lo stereotipo di genere che permeano ancora la nostra cultura.
“Il personale è politico”, si gridava in quegli anni, a significare che problemi che fino a quel momento sembravano relegati al solo ambito domestico ed erano quindi personali (come la disuguaglianza, il controllo, la violenza domestica o il femminicidio) avevano in realtà profonde implicazioni politiche, perché frutto di un sistema basato sulla disparità, sul dominio del’uomo, che richiedeva, dunque, un’azione collettiva e radicale per essere cambiato.
Molte sono state le battaglie per la conquista della parità dei diritti e della libertà e, ancora oggi, non sono finite. Ma per cambiare la nostra cultura dobbiamo cambiare anche la nostra mentalità, il nostro linguaggio, ancora permeato di maschilismo. A partire dai giornali, dai media, passando per le istituzioni e la giustizia. Le parole contano, sono importanti, e chiamare le cose con il loro nome può fare la differenza per cambiare la nostra cultura, il nostro modo di ragionare, l’immaginario collettivo. Come diceva Rosa Luxembrug: “Chiamare le cose con il loro nome è un atto di coraggio”.
E allora facciamola questa rivoluzione.
Non è un “dramma familiare”: è un femminicidio.
Non è un “raptus”: è violenza.
Non è un “rapporto sessuale”: è stupro.
Lui non è un “mostro”: è un uomo violento.
Lei non “se l’è cercata”: è la vittima.
La storia delle donne è una storia di resistenza.
Dalla sottomissione all’emancipazione, dal silenzio alla voce, dal buio alla consapevolezza. Ogni conquista è costata fatica, coraggio, sangue. Ma quella libertà, oggi, è ancora fragile.
La libertà delle donne non si misura solo nelle leggi, ma nella cultura che permea la società, nello sguardo con cui vengono viste, nel rispetto che ricevono (o che non ricevono), nella possibilità di essere sé stesse senza paura.
E allora ricordiamolo: la violenza contro le donne non è un problema delle donne. È un problema degli uomini, della società, della nostra cultura. È un problema di tutti noi.
E noi come giornalisti, come cittadini, come esseri umani, abbiamo il dovere di rompere il silenzio, di denunciare, di cambiare le parole e difendere la libertà.
Perché ogni volta che una donna è libera di essere ciò che vuole, è una donna che brilla di luce propria e che non deve temere nulla per questo. In poche parole: è una donna viva.
La parola è poi passata all’ostetrica Irene Cimei, che si è soffermata maggiormente sull’aspetto della prevenzione, partendo dal quadro attuale della violenza in Italia. I numeri parlano chiaro: una donna su tre in Italia ha subito violenza e, secondo i dati Istat dell’anno 2024, sono morte 116 donne, la maggior parte delle quali per mano di partner ed ex partner.
Ma cos’è il femminicidio? Cosa significa? E perché si parla di femminicidio e non di maschicidio? La parola “femminicidio” trova il suo fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nella nostra società. Questo tipo di omicidio rappresenta un problema sociale che attiene alla dimensione dell’oppressione e della disuguaglianza tra uomini e donne, rilevando la complessa relazione tra la violenza e la discriminazione sessuale. Di fatto parlare oggi di femminicidio significa parlare di una questione legata alla nozione di genere, poiché si tratta di un omicidio diretto contro una donna in quanto tale. Per questo non può esistere la parola “maschicidio, perché manca la componente della discriminazione sessuale.
Si è parlato poi dell’importanza dei centri antiviolenza, delle case della donna, dei consultori come punti di riferimento per le donne che hanno subito o che subiscono violenza domestica e temono per la propria incolumità e per quella dei propri figli. Oltre a queste realtà ci sono anche altre soluzioni per essere protette all’interno del proprio raggio d’azione.
Esistono diverse applicazioni per le donne vittime di violenza, come 1522, che permette di chattare o chiamare le operatrici del numero nazionale antiviolenza, e D.i.Re, che aiuta a trovare il centro antiviolenza più vicino tramite geolocalizzazione. Altre app utili includono Where ARE U e YouPol per l’emergenza, Bright Sky che si camuffa da app meteo, e Viol@ o NonSeiDaSola che aiutano in caso di spostamenti a rischio.
La prevenzione prevede anche un’educazione sessuale ed affettiva come contrasto alla violenza di genere, strettamente legati a uno dei compiti che sono affidati alle scuole: formare bambini/e, ragazzi/ragazze, educarli a diventare uomini e donne consapevoli e responsabili nell’esercitare cittadinanza attiva. Quindi la domanda su cosa significhi nascere maschi e femmine e diventare uomini e donne dentro una prospettiva di educazione all’affettività e alla parità di genere, che riguarda non solo la famiglia, ma direttamente anche i servizi educativi e la scuola.
Infine, l’ostetrica Irene Cimei ha concluso in suo intervento sulla necessità di educare al consenso come base del nostro agire, ovvero insegnare a sé stessi e agli altri a rispettare i propri limiti e quelli altrui, partendo dal riconoscimento del proprio corpo, delle emozioni e dei bisogni. Questo processo si concretizza nel quotidiano attraverso la pratica dell’ascolto, del chiedere permesso e dell’accettare i “no” come risposte legittime, per costruire relazioni sane e consapevoli, prevenendo abusi e violenze.
La parola è passata poi alla psicologa Maria Chiara Mazzei che ha delineato il tema della violenza partendo dall’elemento fondante che spesso scatena l’agire violento dell’uomo da parte della donna: la violenza psicologica. Molte donne vengono letteralmente annientate mentalmente dal proprio partner al punto da negare a sé stesse le potenzialità violente di lui, e a non riconoscere più il pericolo. Dunque si parte dal ciclo della violenza, la spirale violenta in cui la donna inconsapevolmente ricade e il legame traumatico che si instaura, come una sorta di dipendenza, di schiavitù dall’uomo.
Ciclo della violenza e spirale della violenza sono i meccanismi alla base della violenza stessa, che è un processo costituito da una serie di fasi cicliche che si ripetono nel tempo.
Nel ciclo, per esempio il passaggio dalla prima fase, la tensione, che si manifesta con la violenza psicologica, poi l’escalation (aggressione fisica), fino ad arrivare al pentimento, una breve fase idilliaca di riappacificazione chiamata anche “luna di miele” (terza fase). Sono dinamiche che confondono la donna divisa tra rabbia e paura inespressa, vergogna, sentimenti di inadeguatezza, speranza di un cambiamento. Questo, ad esempio, è uno degli aspetti psicologici principali che portano la donna a restare, a nascondersi dal problema, a non ribellarsi, a non scappare.
La spirale violenta indica invece il fatto che le varie violenze che si succedono diventeranno sempre più intense e, paradossalmente, più è intensa la violenza, più l’autostima si abbasserà, le forze di combattere anche. Più la donna crede di non valere, di non farcela, di non poter meritare altro, così più forte perdonerà al suo partner qualsiasi cosa e poi più forte sarà il trauma, quando la violenza si ripeterà.
La donna finisce per credere di essere esattamente come viene descritta (“sei stupida”, “non combinerai mai nulla”, “dove vai senza di me”). Il maltrattamento psicologico si trova nella prima fase del ciclo e precede la violenza fisica o sessuale. La psicologa Maria Chiara Mazzei ha dunque sottolineato quanto sia importante, come prima forma di prevenzione, prendere coscienza e non lasciarsi sopraffare da una relazione che sin dall’inizio si mostra zoppicante, poiché calpesta la dignità della persona, l’autostima e il rispetto.
In chiusura, c’è stato l’intervento dell’Assessora alle politiche sociali, pari opportunità e pubblica istruzione Rosa De Luca, che ha parlato dei servizi sociali operativi sul nostro territorio. Come la Cooperatva “Be Free”, punto di riferimento per i progetti sulla tutela della donna e la Casa Rifugio, operativa nel Lazio, Abruzzo, Molise e Umbria.
Una realtà sociale fondata nel 2007, con l’obiettivo di dare vita a un laboratorio permanente di elaborazione di pratiche di accoglienza e contrasto alla violenza contro le donne. Il progetto è nato da un primo nucleo costituito da una decina di operatrici antiviolenza e antitratta, già attive da anni in altre organizzazioni di donne. “Be Free” si riconosce nel transfemminismo intersezionale, nella consapevolezza che tutte le forme di violenza derivino da stereotipi relativi al genere, ai generi, all’abilismo, al razzismo, all’ageismo, all’omolesbotransfobia, alla classe sociale, al credo religioso.
L’Assessora Rosa De Luca ha poi omaggiato Oria Gargano, la presidente della cooperativa “Bee Free” che da poco ci ha lasciato e che è stata per anni il centro morale e operativo della cooperativa. Il suo slogan era: “Donna, lo sai, la forza che hai”, esortando tutte le donne a prendere consapevolezza di sé stesse, della propria forza e del proprio coraggio nonostante le difficoltà, la paura, la discriminazione, la stigmatizzazione sociale.
Infine, l’Assessora De Luca ha palesato la volontà di promuovere progetti di prevenzione nelle scuole, così da estendere questa giornata alle giovani generazioni: un momento fondamentale di educazione, prevenzione e responsabilizzazione per coloro che forse più di altri possono fare qualcosa per cambiare il futuro e la cultura della nostra società.

