EDITORIALE DEL DIRETTORE – Il 13 novembre si celebra la Giornata mondiale della gentilezza, istituita per richiamare l’attenzione sull’importanza dei comportamenti e dei gesti — anche i più semplici — che possono fare la differenza nei rapporti umani. Un invito a riflettere sul modo in cui ci poniamo verso gli altri, perché il nostro futuro, personale e collettivo, dipende anche da questo: dal tono con cui parliamo, dal rispetto che mostriamo, dall’empatia che sappiamo offrire.
Eppure, oggi sembra quasi che la gentilezza sia diventata un rischio. Viviamo in un tempo in cui rispondere con cortesia o disponibilità viene spesso scambiato per debolezza. Ci lamentiamo dei toni bruschi nei pubblici uffici, di chi ci risponde male al telefono o di un servizio inefficiente, ma raramente ci chiediamo come ci poniamo noi di fronte agli altri. La possibilità di risolvere un problema, anche burocratico, passa spesso attraverso la capacità di instaurare un dialogo umano. La gentilezza, in questo senso, non è una formalità: è uno strumento di civiltà.
Ma gentilezza ed educazione sono concetti che viaggiano insieme. Nel vocabolario della nostra prestigiosa lingua italiana, “educazione” significa “metodico conferimento o apprendimento di principi intellettuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell’individuo e della società”. È dunque una parola che racchiude in sé i principi fondanti del vivere civile — quei valori che non hanno tempo, e che dovrebbero rappresentare il fondamento di ogni convivenza.
Oggi, purtroppo, l’educazione delle persone perbene è diventata quasi un’anomalia. Nella società del terzo millennio, chi è educato, gentile e disponibile sembra appartenere a una categoria in via d’estinzione, e per di più rischiosa. Un tempo queste qualità rappresentavano un valore aggiunto: nella politica, nel lavoro, nei rapporti sociali. Oggi, invece, paiono una patologia da curare, un ostacolo all’affermazione personale. E così ci si attrezza per adeguarsi al logorio della vita moderna: scorbutici, arroganti, spesso orgogliosi della propria maleducazione come se fosse un segno di autenticità.
L’atteggiamento composto e rispettoso viene subito scambiato per debolezza, ma in realtà è tutto il contrario. La persona educata sa valutare l’interlocutore, conosce i limiti del confronto, ma non riesce — né vuole — abbassarsi al livello della sgarbatezza. È una questione di carattere, certo, ma anche di formazione: chi è cresciuto con certi valori fatica a dismetterli, anche se il mondo intorno li svaluta.
In una società in cui il merito spesso lascia spazio all’apparenza e alla furbizia, l’arroganza e la scarsa competenza trovano terreno fertile. In politica, ad esempio, un tempo esistevano statisti capaci e preparati; oggi, in determinati ambienti, il potere sembra essersi trasformato in un rifugio per chi non riesce ad affermarsi professionalmente altrove. Meglio circondarsi di persone mediocri e obbedienti, piuttosto che di individui troppo intelligenti o liberi di pensiero: potrebbero mettere in crisi il sistema.
E anche l’aspetto esteriore, ironia della sorte, sembra doversi adeguare a un modello conforme e standardizzato: jeans a cavallo alto, mocassini rigidi color marroncino, camicia a quadri di stagione — il biglietto d’ingresso per una società che premia l’omologazione e diffida dell’eleganza, persino nei modi.
In tutto questo, la gentilezza diventa atto rivoluzionario. Non è un gesto di debolezza, ma una forma di forza interiore. Significa saper mantenere la propria dignità anche quando il mondo invita alla ruvidezza, restare lucidi senza cadere nel cinismo, saper dire “no” con fermezza ma senza perdere il rispetto per l’altro. Forse la gentilezza non cambierà il mondo, ma può migliorare il nostro modo di abitarlo: uno sportello, una classe, una conversazione, un incontro. È lì, nei piccoli gesti, che si costruisce una società più giusta e più umana.
E allora, in questa giornata dedicata alla gentilezza, ricordiamoci che educazione e cortesia non sono debolezze da curare, ma anticorpi contro la malattia dell’indifferenza. Perché, in fondo, essere gentili — oggi più che mai — è un atto di coraggio.