Avezzano – Domani sabato 21 giugno 2025 le strade di Avezzano si riempiranno di corpi, voci, rabbia e orgoglio. L’evento è organizzato dal coordinamento Abruzzo Pride.
Si tratta di una associazione istituita nel 2020, che riunisce diverse associazioni impegnate nella promozione dei diritti e della visibilità della comunità LGBTQ+ nella regione dell’Abruzzo
Le associazioni che attualmente compongono il coordinamento sono:
- Arcigay Chieti – Sylvia Rivera APS:
associazione della provincia teatina attiva dal 2009. - Jonathan Diritti in Movimento ODV ETS:
associazione regionale in attività dal 2001, costituita nel 2003. - Mazì – Arcigay Pescara:
associazione della provincia di Pescara in attività dal 2018. - La Virtuosa – Arcigay Teramo:
associazione della provincia teramana in attività dal 2012 - Arcigay K.H. Ulrichs L’Aquila APS:
associazione della provincia aquilana in attività dal 2008. - Marsica LGBT ODV ETS:
associazione marsicana in attività dal 2017 e registrata nel 2020. - Presenza Femminista APS:
associazione aquilana costituita nel 2018.
“Queste associazioni – spiega il coordinamento Abruzzo Pride – lavorano congiuntamente per promuovere eventi, iniziative culturali e sensibilizzazioni al fine di costruire una società più equa, inclusiva e rispettosa della diversità. La collaborazione tra queste realtà dimostra la forza della solidarietà e dell’impegno collettivo nel perseguire un obiettivo comune di uguaglianza e diritti per tutti”.
VISION & MISSION DI ABRUZZO PRIDE
La vision e mission del Coordinamento Abruzzo Pride ETS si ispira a una visione inclusiva e orientata verso la creazione di una società che promuova la felicità e la libera autodeterminazione di tutte le persone, indipendentemente dall’orientamento sessuale, dall’identità di genere o da qualsiasi altra caratteristica che componga la nostra diversificata comunità. Il nostro impegno si basa sui principi di una società laica, democratica e rispettosa dei diritti umani, dove ogni individuo possa godere delle stesse opportunità e dignità.
I valori fondamentali che guidano l’azione del Coordinamento Abruzzo Pride ETS sono il rispetto e la promozione dei diritti umani e civili, la difesa della libertà individuale, la ricerca dell’uguaglianza, la solidarietà, l’antifascismo, la non violenza, la pace e il netto rifiuto di ogni forma di totalitarismo. Ci impegniamo attivamente per garantire l’inclusione sociale di ogni persona e per contrastare con fermezza ogni forma di discriminazione.
Crediamo in un armonioso rapporto tra ogni individuo e l’ambiente sociale e naturale che lo circonda. La laicità e la democraticità sono per noi princìpi irrinunciabili, poiché crediamo che solo in un contesto in cui la diversità sia rispettata e ogni voce abbia la possibilità di esprimersi liberamente, si possa costruire una società giusta e equa.
Lavoriamo con determinazione affinché le persone LGBTQIA+ si sentano pienamente riconosciute e abbiano accesso alle stesse opportunità e diritti. Nel perseguire la nostra missione, ci impegniamo a costruire ponti di comprensione e a diffondere un messaggio di accettazione e amore, contribuendo così a plasmare un futuro in cui la diversità è celebrata e rispettata in ogni sua forma.
IL DOCUMENTO POLITICO DI ABRUZZO PRIDE:
Consideriamo il nostro Documento politico uno spazio prezioso, dedicato alla voce dei movimenti e dell’attivismo, all’espressione critica e alla partecipazione, al contrasto di ogni forma di guerra, perché per tutte noi la violenza non è mai la scelta giusta; uno spazio di vite che si faccia luogo fisico per la visibilità e la presa di parola di soggettività che dai margini e da posizioni non conformi, raccontano esperienze e pratiche di resistenza.
Ecco perché per tutte noi è giusto raccontarvi cosa sono quei margini, cosa rappresentano politicamente e anche umanamente.
I margini dell’universalità del raccapriccio per la nostra stessa umanità, sfigurata a Gaza1, quelli da cui ci guardano tutte le persone Trans*, povere, non bianche, non binarie, non abili, non magre, tutte le sfamiglie che non trovano spazio in nessun racconto, in nessuna legge, in nessun destino.
I margini di un mondo in cui – come ci ha detto la vedova di Mariele Franco, Monica Benicio, durante la Plenaria di apertura di 4th EL*C Conference (tenutasi per la prima volta in Italia nello scorso Aprile) – l’odio si maschera da morale e il conservatorismo avanza in risposta alla paura. In cui però, noi lo sappiamo, il vero pericolo non sono mai stati i nostri corpi dissidenti: perché il pericolo vero è il sistema che insiste nel controllare i nostri affetti, le nostre scelte, le nostre vite.
Margini sono quelli definiti dall’orografia del nostro territorio, incoronato da vette aspre e alte, infoltito di vegetazione fitta e sottoboschi umidi che custodiscono anime e animali. Lo sappiamo bene noi che viviamo nel cuore dell’Abruzzo, in paesini arrampicati su orli di montagna, su pendici ripide, sotto boschi sempre in ombra pieni di castagni e faggi fra cui scorrazzano, spesso a rischio della loro vita, orse, lupe, aquile reali. La Marsica spesso viene rappresentata dal lago di Scanno perché ricorda un cuore: l’amore che è il primo grande motore del nostro Orgoglio. Una delle frazioni di Scanno si chiama Frattura. Oggi ha 63 abitanti. Fu duramente colpita, come il resto del circondario, dal tremendo evento sismico che nel 1915 cambiò definitivamente il volto della nostra terra.
Un territorio di montagna, un territorio marginale è un territorio sempre fratturato, rotto, impensierito dallo spopolamento, dalla fuga di vita e di vite, di servizi, dalla chiusura di strade, sportelli della Posta, ospedali e farmacie, alimentari.
Questo è un territorio in cui le persone vivono nell’eco delle parole con cui Ignazio Silone le ha consegnate alla storia: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito“.
Si legge così nel libro di Livia Turco “COMPAGNE. Una storia al femminile del Partito comunista italiano” edito nel 2022: «All’inizio del 1950 il popolo marsicano aveva intrapreso la lotta per il lavoro e le terre contro il principe Torlonia, padrone di 14.000 ettari. Una lotta che Miriam (Miriam Mafai, a cui Turco sta dedicando parole di ricordo e racconto storico e politico, ndr) condivide con il marito, figlio di una guardia del latifondista: “Ho capito cosa fossero la fatica e la vita contadina solo nel corso dei mesi in cui ho vissuto ad Avezzano e nella Marsica, partecipando alla lotta dei braccianti e degli affittuari di terreni, mangiando spesso nelle loro case, parlando a lungo con le loro donne. (…) Di quei giorni ricordo il freddo e le strade scivolose ma anche l’affetto con il quale le donne dei braccianti ci accoglievano nelle loro case, la tenerezza con la quale si prendevano cura di mio figlio che spesso affidavo alle loro cure per tutta la giornata”2».
Nacque anche l’Associazione donne della Marsica in quegli anni, la loro fierezza ancora è visibile nei racconti che ne fa Mirka Liberale, moglie di Romolo (scrittore, poeta ed attivista politico aperto alla speranza nel sogno di una civiltà solidale e fraterna), ogni volta che la incontri (e guai che manchi anche oggi, segnata dal tempo, ad un 25 Aprile o a un 1° Maggio).
La posizione di marginalità cui la stratificazione del potere vorrebbe condannare le persone cosiddette vulnerabili, opprimendole, rappresenta per noi un punto di partenza per nuove soggettività politiche capaci di adottare inedite visuali e di sperimentare forme innovative di partecipazione, una posizione cioè costitutivamente politica, allo stesso tempo occasione di riscatto e luogo del dissenso, come contesto nel quale sviluppare richieste di visibilità e lotte per il riconoscimento.
Ecco che quindi si rende quanto mai necessario l’attraversamento della città di Avezzano con il corteo dell’Abruzzo Pride e delle nostre istanze politiche.
IN QUESTO ABRUZZO PRIDE SIAMO RIVOLTORSE
RivoltOrse è il nostro manifesto, quello in cui rivendichiamo le nostre esistenze, i nostri corpi e le nostre identità – composte come sono, in modo polimorfo e complesso, da un lato dalla resistenza dell’orsa marsicana, che vive in un territorio selvaggio, a volte aspro e reso inaccessibile da neve, vento, acqua, roccia che sa diventare spesso ostile, e dall’altro dall’orgoglio nostro e della nostra rivolta queer.
In questo manifesto ruggisce la nostra rivolta: ogni giorno rivendichiamo i nostri Diritti, la nostra visibilità e i nostri corpi. La nostra è una rivolta che nasce dalla terra, dalle nostre radici, dalle montagne: l’Abruzzo ci ha insegnato a resistere con fierezza e orgoglio.
Abruzzo Pride è forte, gentile, orgoglioso e rivoltorso.
IL RUGGITO NELLA PACE
L’Abruzzo Pride è un ruggito a favore della Pace e prendiamo posizione contro quei conflitti che nel mondo, con metodi violenti, armati dal capitalismo coloniale, annientano l’autodeterminazione dei popoli e delle persone.
In Sudan, la guerra civile ha causato oltre 150.000 vittime, con massacri etnici perpetrati in nome di un genocidio. In Amhara, Etiopia, il conflitto tra la milizia Fano e le forze federali ha causato centinaia di morti civili, bersagli di attacchi aerei e repressioni violente. In Myanmar, continuano le atrocità contro la popolazione civile e l’escalation di attacchi e scontri ha provocato lo sfollamento di circa 3,3 milioni di persone, di cui quasi il 40% sono bambine. In Yemen, la guerra ha ridotto milioni di persone alla fame: oltre 18 milioni di persone sono bisognose di assistenza umanitaria. In Balochistan, Pakistan, le proteste contro le sparizioni forzate per reprimere il dissenso, sono state “sedate” con arresti di attiviste e manifestanti. In Kashmir, le tensioni tra India e Pakistan sono sfociate in lanci di missili e attacchi aerei, con vittime anche la popolazione civile.
In Ucraina, l’autodeterminazione del popolo continua a essere negata dall’invasione russa. L’Ucraina resiste con coraggio a una violenta aggressione di stampo coloniale a due passi dai nostri confini.
In Palestina, Israele continua il suo disegno di occupazione totale e di deportazione forzata della popolazione palestinese da Gaza, mietendo vittime civili e perpetuando il genocidio di un intero popolo. La terra di Palestina si sta trasformando nell’epitome del groviglio tragico di violenza e di ragioni che è la storia umana. Siamo alla mercè di un pugno arcaico e tribale che sull’onda di un “loro” per poter dire “noi” affonda il coltello senza guardare in volto la propria vittima e mentre lo fa si assolve, uccidendo così in ognuna di noi – insieme – sia l’umanità che la legge3.
Siamo di fronte a una azione di annientamento proclamato senza infingimenti.
NON SI PUÒ PIÙ TORNARE INDIETRO.
L’Occidente ha imboccato una strada a senso unico, senza possibilità di svolte: fra poco sarà di fronte ad un bivio e noi non vogliamo stare dalla parte del genocida.
In questo scenario globale di oppressione e violenza, il nostro ruggito risuona come un grido di resistenza e speranza.
Ruggiamo nell’autodeterminazione dei nostri popoli contro la violenza, l’oppressione, l’ingiustizia; il nostro ruggito è l’eco di chi lotta per la libertà e l’autodeterminazione, un’azione collettiva di rovesciamento delle strutture di potere che utilizzano la guerra come strumento di negazione dell’identità delle persone e dei popoli.
Le strade dell’Abruzzo Pride saranno ancora una volta attraversate da bandiere palestinesi, ma quelle bandiere sono il simbolo di solidarietà per tutte le vittime di conflitti: donne, bambine, rifugiate, attiviste e civili.
FUORI GLI ARTIGLI
Continuano a volerci tenere nascoste nelle nostre tane.
Quest’anno si è registrato un preoccupante aumento del numero e della diffusione geografica della violenza motivata da pregiudizi contro le persone LGBTQIA+ in Italia rispetto agli anni passati, con episodi segnalati quasi mensilmente.
Per questo motivo l’Italia continua a sostare nelle retrovie in Europa nella tutela dei diritti delle persone LGBTQIA+, mantenendo il 35° posto nel report ILGA 2025, ad un passo dall’Ungheria di Orban che vieta i Pride per legge.
Tale posizione non è solo un numero, ma è la dichiarazione di una completa volontà da parte del nostro Governo di ignorare i Diritti negati alle persone LGBTQIA+, volontà accentuata da veri e propri attacchi nei confronti delle famiglie omogenitoriali, delle soggettività e corpi Trans*.
A fronte di un aumento della violenza omolesbobitransafobica, la risposta istituzionale è la negazione, il girarsi dall’altro lato con un linguaggio politico che alimenta la paura nei confronti delle diversità e una totale assenza sul piano legislativo di azioni volte ad aumentare i diritti.
Il caso più preoccupante è la criminalizzazione della gestazione per altre: in una diatriba politica che ha esulato qualsiasi azione volta a regolamentarla o a confrontarsi sull’accesso alla pratica etica e solidale, senza minimamente interpellare il principio all’autodeterminazione delle donne, l’attuale Governo l’ha di fatto criminalizzata rendendola un reato paragonato ai crimini contro l’umanità.
Con la Legge Varchi vi è un attacco frontale alla nostra genitorialità, ma nello stesso tempo al principio stesso di autodeterminazione familiare; per non pensare alle fortissime criticità tecniche evidenziate da più parti del mondo giuridico e non solo, derivanti dall’introduzione di una clausola di punibilità della surrogazione realizzata all’estero.
Continuiamo a sostenere la pratica della gestazione per altre ponendo al centro l’autodeterminazione delle donne.
Di pari passo continua l’assenza a livello legislativo di una Legge contro le discriminazioni omolesbobitransafobiche.
Dopo la bocciatura del DDL Zan, tra vergognosi applausi scroscianti, continuano a non essere presenti strumenti legislativi di tutela e percorsi strutturati volti a sensibilizzare sulle discriminazioni omolesbobitransafobiche.
In più i Diritti delle persone Trans* e intersessuali restano negati, tali soggettività continuano a essere patologizzate, l’omolesbobitransafobia continua a non essere riconosciuta dal Codice Penale e ogni tentativo di educazione all’affettività e alle differenze viene ostacolato da chi vorrebbe cancellare la diversità dai programmi scolastici.
Guardiamo con preoccupazione ciò che sta accadendo oltre confine, a partire dal divieto dei Pride in Ungheria e alle azioni dell’amministrazione Trump in America mirate all’eliminazione delle persone Trans* nell’esercito e negli sport in base all’identità di genere, dalle azioni in Bulgaria volte a vietare percorsi formativi sull’educazione affettiva all’approvazione della legge a tutela “dei valori della famiglia” in Georgia e dalla negazione da parte della Corte Suprema Britannica nel riconoscimento come donne delle soggettività Trans*.
«Noi associazioni organizzatrici siamo sotto investigazione per aver organizzato la manifestazione, chi parteciperà sarà identificato e multato tramite riconoscimento facciale.» Questo è quello che accade in Ungheria, in Europa nel silenzio della commissione europea. E quando i Diritti di una minoranza vengono attaccati, tutti i Diritti conquistati sono a rischio.
Tali azioni sottolineano come il Pride non debba mai interrompersi, come anche quando pensiamo di aver ottenuto in parte un riconoscimento e una visibilità questa possa essere facilmente rimossa: non dobbiamo fermarci.
Condanniamo le cosiddette teorie riparative e le pratiche di conversione che si esplicano come atti violenti volti ad annientare l’autodeterminazione delle persone LGBTQIA+, ad oggi vietate solo in 4 paesi comunitari.
A queste azioni che vorrebbero riportarci nascoste nelle nostre tane rispondiamo con gli artigli: con le piazze piene di persone, con i nostri corpi diversi, con le nostre relazioni libere e queer.
LE NOSTRE FAMIGLIE
Ruggiamo quando le Istituzioni pretendono di regolare non solo chi abbia o meno diritto nel costruire una famiglia, ma anche decidere come questa debba essere fatta.
Rigettiamo la narrazione secondo cui l’unica famiglia è quella adattata al modello patriarcale, eteronormato e binario perché non rispecchia quelle che invece sono le molteplici forme di affettività, cura e legame che attraversano le nostre vite.
Le famiglie queer, le famiglie di elezione, le reti di supporto create fuori dalla logica della riproduzione biologica sono realtà vive e resistenti, sono espressione e struttura delle nostre vite e meritano un pieno riconoscimento giuridico e sociale.
E quando nelle nostre famiglie nasce il sentimento della genitorialità non possiamo che rifiutare la criminalizzazione della gestazione per altre, che punisce chi vuole costruire una genitorialità attraverso percorsi alternativi, condivisi e basati sull’autodeterminazione delle donne, nel pieno rispetto della dignità e volontà di tutte le persone coinvolte, nella piena autodeterminazione dei loro corpi e delle loro scelte. Di pari passo chiediamo con forza l’accesso all’adozione per tutte le persone, singole, in coppia o in qualunque altra forma relazionale, permettendo l’accesso a tutte le persone con desiderio di genitorialità così come alla PMA e alla stepchild adoption. Per questo salutiamo con entusiasmo la sentenza definita “epocale” del 22 maggio scorso con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto della madre intenzionale a essere genitrice sin dalla nascita, anche se la procreazione medicalmente assistita è avvenuta all’estero, decretando uno stop alle adozioni post-nascita, ai controlli dei servizi sociali e alla discriminazione tra figliə.
Inoltre riteniamo necessario superare il modello di famiglia riconosciuto delle Unione Civili che continua a relegare le coppie omosessuali ad una unione di “serie B” rispetto alle coppie eterosessuali, ignorando inoltre ogni altra configurazione familiare all’interno della nostra comunità. Continuiamo a chiedere un matrimonio universale che metta al centro tutte le persone coinvolte nella relazione e che garantisca tutti i diritti e tutti i doveri legati al voler costruire comunità familiari.
IL DIRITTO ALLA CASA
Per la società dobbiamo essere consumatrici, produttrici, silenziose e grate: ci vogliono così e lo esigono anche se viviamo nella miseria.
Ciò che pretendiamo è che tutte abbiano gli stessi strumenti per vivere in maniera giusta ed equa: una casa e un reddito di base come Diritti universali, non come beni da conquistare.
In questa cultura che mira a premiare la performance spinta ai massimi livelli e punire il giusto riconoscimento degli spazi personali, le persone al vertice sono protette, mentre coloro che lottano ogni giorno per r-esistere vengono dimenticate e messe da parte.
Vivere è diventato un privilegio anziché un Diritto.
Nel 2023 la proposta legislativa per un salario minimo è stata nuovamente respinta, affidando tale tema alla contrattazione collettiva e sostenendo che il reddito minimo sarebbe irrispettoso contro chi produce lavoro e ricchezza. Probabilmente queste parole non sono mai uscite dalla bocca di chi ha dovuto decidere tra pagare l’affitto o mangiare.
In Europa 21 paesi hanno il salario minimo, in Italia invece è ancora possibile lavorare per pochi euro all’ora e ci sono ancora generazioni secondo le quali le giovani soggettività dovrebbero accettare condizioni di lavoro svalutanti, non giustamente retribuite, costrette dalla necessità a sottoporsi alla proverbiale “gavetta”, per giunta non retribuita.
Nelle città universitarie in Abruzzo affittare è un lusso; nelle località turistiche, l’affitto di una casa è utopia, l’acquisto di una casa, un retaggio del passato. Molti dei lavori in un sistema precariale non garantiscono la possibilità di vivere, ma a malapena di sopravvivere. Tuttavia, sono le povere a essere ritenute responsabili della loro povertà e i Comuni non godono di un sistema di supporto abitativo adeguato per chi necessita di un tetto. Nello stesso tempo chi decide consapevolmente di non voler vivere sotto un tetto, ma per strada viene colpito da profonda discriminazione e isolamento sociale.
Il problema non è la povertà, bensì l’ingiustizia e la disuguaglianza in un mondo in cui ricchezza e povertà vengono distribuite attraverso l’operato verticale di una piramide di potere; è privilegio, mascherato da ipocrisia politica da sfruttamento capitalista.
Tutte noi dobbiamo avere le stesse opportunità. Abbiamo diritto ad un posto sicuro, dignitoso e accessibile da chiamare casa. Una casa che non sia solo un rifugio, ma uno spazio da cui ri-cominciare, in cui affermarsi, una tana in cui sentirsi al sicuro.
L’edilizia popolare deve tornare a essere uno strumento di giustizia sociale, non un’emergenza da nascondere o un problema da risolvere. Chiediamo veri investimenti, politiche che includano tutte: sopravvivere ai limiti dell’indigenza è un atto politico.
Il reddito minimo garantito è una garanzia reale e significativa di libertà e affermazione. È il potere di dire ‘No’ allo sfruttamento, di essere viste e riconosciute nella dignità della persona.
Nel sistema che ci vorrebbe tutte precarie e grate, scegliamo di essere riconosciute. Vogliamo non solo spazi per lavorare, ma luoghi in cui vivere; case, redditi, dignità.
Nella giustizia sociale c’è il nostro orgoglio.
RIVOLTA IN CARNE VIVA: CORPI GRASSI, CORPI LIBERI
Così come l’orsa ingrassa per prepararsi all’inverno, anche noi vogliamo autodeterminare i nostri corpi liberamente in una società che ci vuole imporre uno standard.
Siamo stanche di vivere in una società che ci impone come dobbiamo essere, dove i corpi grassi sono condannati e relegati ai margini. Noi gridiamo: BASTA!
È ora di conquistare spazi e di rompere le catene di una costruzione normata che ci vuole sempre più magre, più controllate, più “accettabili” agli occhi di chi non sa guardare oltre le apparenze.
Non accettiamo più di essere oggetto di giudizio o di pressione mediatica.
Vogliamo che i nostri corpi grassi occupino i luoghi pubblici, sfidando la società con la loro presenza imponente e ribelle. La nostra rabbia è contro la pretesa di moralizzare il cibo e il corpo, contro l’idea che essere grasse sia un errore, una colpa. Non siamo qui per seguire modelli imposti, ma per celebrare la nostra autenticità: vogliamo essere più grasse se ci fa sentire libere, orgogliose, potenti e fiere della nostra unicità. Se scegliamo di mantenerlo com’è senza dover rendere conto a nessuno, oppure se decidiamo di dimagrire e lo facciamo per noi.
Ci rifiutiamo di accettare che il benessere si misuri con una bilancia o con uno sguardo giudicante: il nostro benessere è una conquista quotidiana, un atto di ribellione contro le regole esterne.
Ogni centimetro, ogni chilo, ogni forma che ci rende uniche è una vittoria contro un sistema che ci vuole omologate. I media e le istituzioni vogliono dirci che il corpo grasso è un problema da “curare” o da “gestire”, ma noi diciamo che il nostro corpo è la nostra tana: lo abbracciamo, lo amiamo e lo valorizziamo esattamente per quello che è. Il nostro corpo non ha bisogno di essere medicalizzato o normalizzato: merita di essere celebrato in tutta la sua complessità.
Questa è una rivolta contro lo stigma, contro la discriminazione che ci è stata imposta sin troppo a lungo. È una chiamata alla lotta per eliminare ogni tabù e per far sentire la nostra voce, soprattutto quella delle adolescenti che si formano in un ambiente tossico di pregiudizi. Non vogliamo più nasconderci, non vogliamo più essere costrette a conformarci a standard assurdi e irrealistici. Abbiamo il diritto di prenderci cura dei nostri corpi come meglio crediamo, di riappropriarci del nostro spazio fisico e mentale.
Le nostre decisioni, prese per amore del nostro corpo e per il desiderio di esprimerci pienamente, non devono essere condizionate da sguardi grassofobici o da imposizioni moralistiche sterili. Non siamo semplici numeri in una bilancia o etichette da affiggere; siamo esseri umani, pieni di sfumature e orgoglio, e abbiamo il diritto inviolabile di essere libere.
Continueremo a celebrare i nostri corpi autentici, senza compromessi, centimetro dopo centimetro.
UNA TANA PER TANTE ORSE
L’Abruzzo, come il resto dell’Italia, è plurale: pluralità di corpi, di identità e di provenienza.
Ad esempio ad Avezzano, nel cuore dell’Abruzzo, la presenza di comunità straniere è significativa: al 1° gennaio 2024, le persone straniere residenti sono risultate pari al 9,6% della popolazione totale. Queste comunità, provenienti da diversi territori, portano con sé storie di vita e diverse tradizioni arricchendo il tessuto sociale locale; costituiscono una parte integrante della nostra realtà quotidiana.
Il nostro Pride riconosce e rende visibile questa pluralità.
Nell’ottica dell’intersezionalità della lotta civile in un contesto in cui le minoranze si trovano a fronteggiare marginalizzazione e discriminazione, è fondamentale costruire spazi di incontro e confronto.
La nostra lotta per i Diritti è anche una lotta per il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, in tutte le loro forme.
IDENTITÀ E CORPI CON DISABILITÀ
Nel nostro Pride è indispensabile riconoscere come le persone con disabilità siano troppo spesso bersaglio di una duplice marginalizzazione: da un lato vengono rese invisibili all’interno del discorso pubblico e sociale, nella totale mancanza di supporti, nella difficoltà di percorsi per l’inserimento nel mondo lavorativo, nell’accessibilità agli spazi pubblici, dall’altro subiscono una sistematica negazione della propria dimensione affettiva, erotica e sessuale.
La società abilista le rappresenta come eterne bambine, da proteggere e alle volte nascondere, oppure come persone che meritano trattamenti pietistici, in una forma di evangelizzazione che le vuole pure, caste, asessuate.
In questa narrazione distorta, tossica e invisibilizzante, la persona con disabilità viene associata a un’impossibilità o a un’inadeguatezza nell’avere relazioni sentimentali o sessuali, come se il desiderio e l’intimità non potessero appartenerle.
Ma le persone con disabilità hanno una vita affettiva e sessuale, ricca di sfumature, proprio come chiunque altra.
Le persone con disabilità possono essere eterosessuali, omosessuali, Trans*, romantiche, aromantiche, asessuali, queer, poliamorose o appartenenti a qualsiasi altra identità sessuale, e hanno diritto a esplorare e vivere pienamente il proprio corpo, il proprio desiderio, le proprie relazioni.
Per questo, riteniamo centrale la creazione di spazi accessibili, di spazi che garantiscano la piena espressione delle persone con disabilità e la loro visibilizzazione. In tal senso, continua a essere fondamentale affermare il ruolo dell’Operatrice all’Emotività, all’Affettività e alla Sessualità (OEAS) per sostenere percorsi di consapevolezza, autodeterminazione e libera espressione dell’identità.
Nella creazione di spazi realmente accessibile possiamo garantire a tutte noi la libera espressione del nostro corpo e della nostra identità.
CURA DEL PROPRIO SÉ
Il colore arancione nella nostra bandiera storicamente simboleggia la salute, salute intesa come benessere, vitalità, equilibrio e guarigione. La salute è un richiamo al corpo vivo, al diritto di stare bene e di prendersi cura di sé in un mondo che non fa di sé esercizio di cura, dignità e visibilità. È fondamentale sia quella fisica sia quella mentale, per un reale e profondo benessere a 360 gradi.
Chiediamo l’accesso gratuito a supporti psicologici tramite sportelli nelle scuole o nella sanità, psicologhe di base e percorsi di formazione obbligatoria per il personale sanitario in modo da riconoscere e avere gli strumenti per rispettare le nostre soggettività e i nostri corpi.
L’omolesbobitransafobia in Italia, la presenza di contesti famigliari non accoglienti, l’assenza di una legge che garantisca educazione affettiva nelle scuole minaccia spesso la salute mentale di persone LGBTQIA+ da stigma, discriminazioni, isolamento e minority stress, che aumentano il rischio di depressione, ansia, autolesionismo e suicidio, soprattutto tra giovani, persone Trans*, intersex e bisessuali.
Allo stesso modo sottolineiamo l’importanza della salute sessuale delle persone basata sul desiderio, sul rispetto e sul consenso rigettando ogni tabù sessuofobico. A tal fine chiediamo la formazione del personale medico e sanitario sul tema della Prep e Pep, l’accesso gratuito a consultori con distribuzione di preservativi per persone con pene o sextoys e strumenti di prevenzione per vagine, l’educazione nel mondo della scuola sui temi delle infezioni sessualmente trasmissibili, sugli strumenti di prevenzione e sulle modalità di accesso ponendo al centro sempre una sessualità libera e consapevole basata sul consenso.
Allo stesso tempo promuoviamo il siero-orgoglio, l’accettazione della propria sieropositività e l’adesione alla terapia antiretrovirale. La sierofobia continua infatti a dilagare nella nostra società, portando le persone con HIV all’isolamento sociale, alla rinuncia e alla paura di una diagnosi precoce, al timore dell’accesso di test e all’adesione tempestivo alle terapie.
Il nostro ruggito è forte per abbattere lo stigma e costruire una società basata sulla cultura della salute pubblica e sull’autodeterminazione.
Parlando di salute e benessere sottolineiamo la necessità di dare visibilità alle persone asessuali, demisessuali, autosessuali o in area grigia. Così come viviamo la nostra sessualità liberamente, lo stesso pretendiamo e facciamo nella nostra sfera romantica. Tali identità sessuali sono ancora troppo spesso bersaglio di discriminazioni anche all’interno della nostra comunità che vede il sesso come una necessità della persona senza riconoscere altre forme di benessere a-sessuale o interpretandole come una assenza di salute. Chiediamo piena visibilità dei nostri vissuti e della nostra sfera romantica come persone aromantiche, romantiche o demiromantiche. Siamo noi a determinare in che modo viviamo le nostre relazioni!
Nell’ottica quindi di benessere inteso come riconoscimento di dignità, visibilità, e autodeterminazione nei propri affetti e dei propri legami rigettiamo le narrazioni amatonormate, che impongono l’idea che solo le relazioni romantiche abbiano valore sociale, e mononormate, che considera la monogamia l’unica forma legittima di relazione, rigettando ogni norma binaria e sessuocentrica.
Queste norme non riconoscono infatti le persone aromantiche, asessuali, single, poliamorose e le reti di cura non tradizionali. Il benessere è anche nella libertà di autodeterminazione nelle nostre relazioni, è possibilità di definire la propria vita affettiva e il proprio corpo fuori dai canoni normativi, senza essere invisibilizzate, discriminate o medicalizzate.
RIVOLTA ANARCOQUEER – NUOVE AFFETTIVITÀ
La nostra comunità, dai primi movimenti degli anni ‘60, si è evoluta negli anni per arrivare finalmente a concepire una nuova visione della vita quotidiana. Questa visione si è plasmata attraverso anni di repressione e oppressione, dopo aver tentato di assomigliare alla società etero-normata, ricreando modelli familiari che assomigliavano alla “tradizione”, semplicemente sostituendo a questa equazione mamma e papà con due mamme e due papà; abbiamo rincorso il matrimonio egualitario per anni auspicando equità.
Abbiamo visto la nascita di comunità necessarie che sono diventate famiglia, che hanno accolto persone abbandonate e sole, case che sono diventate famiglia in cui persone Trans* e omosessuali condividono legami e cura.
La nostra nuova visione non può però di fatto accettare la conformazione eterocisnormata come unica, perché inevitabilmente escluderebbe tutti quegli altri tipi di relazione che invece esistono ma che, dalla norma costituita, sono classificate di importanza inferiore rispetto alla coppia monogama.
Affermare “È solo un’amicizia”, ad esempio, relega l’amicizia a un ruolo secondario rispetto alle relazioni romantiche, e sappiamo bene che non solo non è così, ma questa idea rafforza le dinamiche di possesso che spesso si instaurano all’interno di relazioni romantiche, e che molto spesso diventano tossiche.
Pensiamo anzi che riguardo l’amicizia vada sviluppato un ragionamento più profondo e attento. Ci interroga infatti il fatto che, in un’epoca di grande fermento riguardo al ripensamento delle relazioni che modellano la nostra esistenza, l’amicizia sembri rimanere un punto cieco. Proprio mentre ci interroghiamo su come reimmaginare forme tradizionali come le coppie e le famiglie, l’amicizia rimane per lo più quasi del tutto trascurata.
All’amicizia viene spesso attribuito un ruolo complementare, se non secondario, nell’economia della vita. Una volta raggiunta l’età adulta, si tende a confinare i rapporti amicali allo spazio ricreativo che avanza dalle “cose serie” che sarebbero il lavoro, la famiglia, l’amore: provare a pensare l’amicizia come punto di partenza per rivoluzionare la propria vita, appare persino radicale.
La rivolta anarcoqueer non può non passare per l’amicizia che è intrinsecamente priva di forme precise da ripensare. È, in quanto tale, una relazione fluida e malleabile, che elabora e fonda da sé le proprie regole, i propri parametri e le proprie abitudini. Nell’amicizia non ci sono comportamenti prestabiliti a cui conformarsi (o da mettere in discussione), ma piuttosto la creazione libera e condivisa di modalità attraverso cui rapportarsi con gli altri.
Quando i legami amicali vengono posti al centro della propria vita, smettendo di essere relegati ai ritagli di tempo per intessere invece la quotidianità, diventano la fucina della “produzione della soggettività”4. Questo perché, nel momento in cui una persona sceglie di forgiare la propria identità all’interno di una rete di relazioni liberamente plasmabili, diventa più libera, meno vincolata dai condizionamenti sociali e dalle pressioni esterne che spesso generano vite infelici – o, più precisamente, vite non scelte.
Proviamo ad assumere il valore politico e socialmente dirompente del pensiero di De Lagasnerie: l’amicizia è e può essere una “forza liberatrice”, un “contro-potere”. Ci
troviamo a parlare di un ambito dell’esistenza non istituzionalizzato (e questa è anche la sua debolezza, non potendo basarsi su nulla di esterno a sé): per ciò l’amicizia si potrebbe porre come alternativa possibile a tutte le forme di vita e di relazioni istituzionalizzate, in primis la famiglia e l’ordine borghese. A far saltare tutte le manovre che costringono gli individui all’interno delle proprie logiche rigide: vivere l’amicizia come stile di vita significa porsi al di fuori della società e delle sue forme fisse, senza però rinunciare alla socialità o cadere in strutture sociali alternative ma altrettanto costrittive; ricercare l’autonomia, intesa come volontà di autodeterminarsi e sfuggire ad automatismi e convenzioni esterne.
Rigettiamo il presupposto che ci debba essere una piramide di importanza nelle relazioni per cui alcune sono più importanti di altre.
Ed ecco che arriviamo al conformarsi della nostra nuova visione che è Rivolta, perché rifiuta le strutture imposte e costituite. La nostra nuova visione è anarchica, perché ha bisogno di autodefinirsi slegandosi dalle norme. La nostra nuova visione è queer, perché vogliamo amare e legarci alle altre senza distinguerci in orientamenti sessuali, identità di genere, credo religiosi, etnie ecc.
La nostra nuova visione è, soprattutto, il rifiuto di accettare strutture relazionali e familiari prestabilite, ma crearne di nuove per ogni nuovo legame.
Vogliamo essere libere di modellare le nostre relazioni partendo dal nostro desiderio e dalla condivisione con l’altra.
La nostra nuova visione è il desiderio di poter costruire e mantenere legami partendo da presupposti di autodeterminazione di ogni singolo legame e relazione, con alla base rispetto, onestà e consenso.
INDIVIDUE UNICHE. IL RUGGITO DELL’ANTISPECISMO
A darci la spinta per continuare ad approfondire il tema dell’antispecismo è lo spirito indomito del nostro motto, RivoltOrse, dedicato all’Orsa Bruna marsicana e alla sua stretta connessione con il sistema patriarcale in particolare.
Lo specismo e il patriarcato si fondano entrambi su superiorità e dominio. Il primo discrimina in base alla specie, il secondo in base al genere e all’identità sessuale.
Così come il patriarcato intende controllare e sfruttare i corpi femminili nella riproduzione, sessualità e maternità, lo specismo controlla i corpi animali per puri scopi riproduttivi giustificando le oppressioni come naturali.
Avendo quindi entrambi i sistemi una matrice comune basata su superiorità e sfruttamento, non possiamo non riflettere su come lo specismo sia strettamente collegato e unito alle lotte politiche del Pride.
Il patriarcato si fonda su una visione binaria del mondo: uomo/donna, forte/debole, razionale/emotivo e la stessa logica si esplica nello specismo, ma ponendo alla base della piramide del potere la specie animale. Entrambi i sistemi usano la logica del dualismo gerarchico per giustificare la subordinazione.
L’oppressione delle donne e quella degli animali non sono parallele, bensì profondamente intrecciate, come ha rilevato la filosofa femminista e antispecista contemporanea Carol J. Adams.
Sogniamo il giorno in cui ogni femmina, umana o non umana, sarà libera di autodeterminarsi.
“La Liberazione sarà totale o non sarà”.
Tale parallelismo ci porta inoltre a ragionare su come uguaglianza, libertà, rispetto siano solitamente associati a Diritti degli esseri umani. Cosa accade ampliando la nostra prospettiva?
Non dovremmo discriminare gli individui – intesi come “Indivisuus” dal latino, “Indivisibile”, ovvero “Essere con caratteristiche uniche” – in base alla specie a cui appartengono, così come rifiutiamo il sessismo o il razzismo. Con questo movimento culturale ed etico mettiamo in discussione la presunta superiorità antropocentrica dell’essere umano sugli altri animali.
Qui in Occidente amiamo cani e gatti, lottiamo per liberare tigri, leonesse ed elefanti dagli zoo, scendiamo in piazza contro chi vuole uccidere orse, lupi, cerbiatte, cervi, eppure ancora troppe persone accettano senza problemi le aberrazioni dell’industria zootecnica a cui vengono relegate 4/5 specie in condizioni terribili e disumane.
Invece.. Non c’è nessuna differenza tra tutte loro.
L’antispecismo invita proprio a questa coerenza: a considerare uguali tutti gli esseri viventi, non come risorse o prodotti, ma come individui, come essere senzienti con emozioni, dolori, paure.
Bisogna diventare presidi resistenti contro ogni autoritarismo.
Vogliamo essere persone complici ed alleate degli animali, tutti gli animali, sfruttati, oppressi, denigrati dalla mera logica del profitto e del dominio umano così come il sistema patriarcale opprime e relega all’invisibilizzazione noi persone gay, Trans*, lesbiche, bisessuali e queer.
L’antispecismo è, in fondo, empatia totale e sconfinata, esercizio di cura, in quanto non si ferma al confine della nostra specie.
Ci invita a guardare il mondo con occhi più attenti e con un cuore più aperto.
Ogni vita conta. Ogni vita vale.
FEMMINISMO INTERSEZIONALE – DONNE E RIVOLUZIONE CULTURALE
Rompere l’isolamento, praticare altri mondi.
In un saggio del 2016 sulla Vulnerabilità nella Resistenza, Judith Butler, insieme ad altre ha osservato come la richiesta politica di affrontare problemi di oppressione e discriminazione, diretta alle istituzioni che dovrebbero rispondere a tali esigenze, viene fatta mentre ci si propone di resistere ai modelli di potere rappresentati da quelle stesse Istituzioni: questa condizione riassume bene il cortocircuito entro cui i femminismi attuali sembrano essersi bloccati. Sembra cioè, allo stato attuale e sempre di più con la presenza al Governo di una destra omofoba e razzista, impossibile pretendere il cambiamento dalle stesse Istituzioni (politiche, economiche e culturali) che sono responsabili della nostra oppressione.
Perché, diciamocelo, il femminismo non può avere come unico obiettivo quello di far approvare delle Leggi, sebbene siano una parte fondamentale della nostra vita e delle nostre lotte.
La domanda allora da porsi come RivoltOrse transfemministe oggi è, aiutandoci con Audre Lorde: è possibile distruggere la casa del padrone usando gli strumenti del padrone?
Quello a cui ambiamo è la costruzione di un femminismo anticapitalista antirazzista anticoloniale, che non cerchi di cambiare la nostra posizione nella società, ma che cerchi di
cambiare la società – che cioè si renda conto che non si può produrre cambiamenti sostanziali senza cambiare la società. Un femminismo quindi che guardi ai grossi sistemi.
Scrive Silvia Federici, in uno dei saggi contenuti in “Il punto zero della rivoluzione”: «se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace di trasformare la società e creare rapporti sociali egualitari, dobbiamo abbandonare la prospettiva sia dell’uguaglianza che della ‘differenza’, poiché entrambe non contestano l’organizzazione capitalista del lavoro con tutto il suo carico di sfruttamento, rapporti sociali razzisti e sessisti, la rapina continua delle ricchezze che produciamo e l’immiserimento generale della società»
Federici ci consegna questa suggestione potente e rivoluzionaria, insieme al suo sguardo fiducioso ma severo quando dice “Sento che siamo ancora lontane da quello che è necessario fare, dall’avere grossi movimenti di massa che veramente abbiano acquisito una visione realmente e fortemente antisistemica, che siano cioè capaci, interessati e disposti ad analizzare cosa mantiene questo sistema insieme, ancora in piedi: come si organizzano i sistemi di discriminazione, che cosa li permette, quali sono gli ingranaggi da bloccare, da smantellare, per riuscire a creare una società diversa”.
È un lascito pesante, e a noi sembra, chiaro nel suo portato politico e culturale: non vanno conquistati gli strumenti del “padrone”, vanno smantellati, debellati, cambiati, così da poter fattivamente contrastare le strutture che producono marginalizzazione e oppressione.
A partire dallo sfruttamento del lavoro riproduttivo e di cura. Se tutte le ore di lavoro riproduttivo non retribuito prodotte dalle donne e da quelli che Chiara Bottici nel suo Manifesto Anarcafemminista chiama ‘i secondi sessi’ venissero messe a valore, il capitalismo crollerebbe incapace di sopravvivere a sé stesso.
La casa del padrone non va abitata, va demolita.
Gli strumenti del padrone non vanno conquistati, vanno debellati.
“Dalla critica dei femminismi alla politica nasce la possibilità di un nuovo discorso sulla libertà, la cura del mondo, la battaglia per l’uguaglianza e la giustizia. Ma soprattutto la necessità di un nuovo patto sociale, una volta saltato quello fondato sulla soggezione delle donne e sulla separazione tra ordine politico e ordine sessuale, tra sfera pubblica e sfera privata. Sullo sfondo dei conflitti in corso vi è la crisi dell’ordine patriarcale, messo in discussione dall’autonomia delle donne.
Questa crisi non avviene senza inciampi e contromosse.
I conflitti sempre aperti su aborto e violenza di genere ne sono indicatori essenziali: la libertà femminile è il bersaglio del contrattacco e di una resistenza al cambiamento, in cui si mostra una vera e propria questione maschile, che va letta e affrontata come questione politica. la destra populista, interpretando politicamente questa crisi, offre una risposta regressiva, accogliendo e incoraggiando il desiderio di restaurazione”.
È in queste vicende che si staglia la sfida lanciata apertamente ai corpi e alle persone non conformi, a partire dalle soggettività Trans*. Attraverso i loro corpi e le loro esistenze si provano a delegittimare l’autonomia e l’autodeterminazione delle persone che chiedono e si aspettano pari dignità e pari opportunità di esistenza. Il patriarcato ha bisogno di corpi da usare, determinare e controllare, per poter esistere. Senza i ruoli assegnati, il binarismo rigido utile alla prosecuzione di un sistema dispari di sfruttamento non riesce a sopravvivere. Senza il lavoro gratuito di cura, riproduzione, nutrimento, accudimento – inteso come destino predeterminato – il neo-patriarcato tecno-capitalista non avrebbe gambe per camminare.
Smetterebbe di esistere e i predoni della terra invece quello che vogliono è poter continuare a vivere e ad arricchirsi letteralmente sulle nostre spalle.
Pensiamo a quanto questa cosa sia evidente, guardando il corpo di Adriana Smith, dichiarata cerebralmente morta a febbraio di quest’anno, ma “tenuta in vita” poiché incinta di ventuno settimane al momento del fatto. Verrà mantenuta così al fine di portare a compimento la sua gestazione. Nonostante sia stata dichiarata morta.
Come ha scritto Eugenia Nicolosi: “Questa è la storia di noi tutte: il nostro potere finisce lì dove inizia la nostra gravidanza, che lo vogliamo oppure no, che siamo vive oppure no.
Che siamo in grado di dare il nostro consenso oppure no”.
In un ordine totale di sfruttamento e utilizzo per fini che ci superano, travalicano, oggettificano.
“Adriana Smith è morta. Ma il suo cuore continua a battere, non per volontà di tentare una cura miracolosa, non per scelta di Adriana o della famiglia, ma per imposizione. È tenuta in vita da macchinari, come un vaso in cui far crescere una pianta, come un’incubatrice umana a cui è stata strappata la dignità”.
La recrudescenza della violenza fascista, come le ignobili azioni transfobiche messe in campo dalla criptocrazia trumpiana e non solo, i divieti di Stato per lo svolgimento dei Pride di Orban, la criminalizzazione di alcune esistenze, dimostrano una volta per tutte che allo sviluppo e progresso del capitale non corrisponde il benessere sociale.
In Italia lo abbiamo visto con l’opposizione al DDL Zan, con l’entrata di organizzazioni come Pro Vita e Famiglia negli ospedali, nelle scuole, in Parlamento, con i processi di pinkwashing del femminismo neo-liberale che tenta di sussumere e normalizzare i linguaggi, le pratiche e i discorsi delle lotte femministe e queer.
Per loro accettare le nostre esistenze significherebbe mettere in discussione le proprie: per questo il transfemminismo fa paura. Per questo non ci dobbiamo né possiamo arrendere.
DECRETO SICUREZZA
Uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione, nata dalla resistenza antifascista, è il Diritto alla manifestazione delle proprie opinioni, anche pubblicamente, attraverso ogni mezzo purché sia pacifico (Art. 21 della Costituzione italiana).
Con il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, attraverso lo squilibrio del fondamento di proporzionalità della pena, stiamo entrando in una nuova epoca in cui vengono legittimati atteggiamenti che ricordano l’autoritarismo fascista.
Aumentano le tutele per le Forze dell’Ordine e si riducono le loro responsabilità.
Per anni si è chiesto che esse abbiano visibili, sulle divise, dei codici identificativi e una bodycam, strumenti che potrebbero permettere di clarificare casi di abuso di potere finora rimasti sempre in fumose storie irrisolte.
Il Decreto, inoltre, permette agli appartenenti alle forze dell’ordine di portare armi anche fuori servizio senza doverle dichiarare, vengono riviste le pene per abusi nelle carceri e l’offesa a Pubblico Ufficiale prevede anche l’arresto immediato per flagranza di reato con pene anche carcerarie.
Tutto questo paventa casi estremi in cui abusi di potere possono portare al carcere manifestanti che semplicemente si difendono dal manganello o che resistono passivamente a sgomberi e blocchi.
Questo Decreto assottiglia la differenza tra difensore e aggressore soprattutto per chi come noi è parte di soggettività marginalizzate o contribuisce attivamente ad una collettività critica e pensante.
Questo Decreto normalizza l’idea che noi comunità sotto attacco non dobbiamo sentirci al sicuro, normalizza l’idea che chi manifesta contro il Governo e contro determinate politiche sia una persona violenta.
Noi con questo Decreto Sicurezza non ci sentiamo per niente al sicuro.
CONSENSO
Nella costruzione di una società che ponga al centro l’autodeterminazione delle persone riconosciamo al centro dei nostri rapporti la pratica del consenso.
È nell’azione del consenso che esercitiamo il diritto all’autodeterminazione del nostro corpo e della nostra identità, definendoci, definendo i nostri spazi: ragionare sul consenso è ragionare su quali sono le basi di qualunque relazione (tra umani e non).
Il consenso è la capacità di trovare accordi soddisfacenti con le altre (quindi per tutte quelle che partecipano alla decisione) in qualunque situazione e implica non solo una riflessione su come prendiamo le decisioni in gruppo, ma su come noi con noi stesse prendiamo le decisioni, su cosa ci influenza a livello sociale e su quanto siamo in grado di ascoltarci ed esprimere i nostri bisogni, limiti e paure. In questo senso intendiamo ed esercitiamo il consenso come pratica di cura reciproca e per noi stesse.
Le condizioni per il consenso nelle interazioni sono quindi più o meno le stesse di quelle per una buona relazione con le altre persone (e con noi stesse) più genericamente. Se non ci sentiamo libere, sicure e capaci di sintonizzarci con noi stesse e di comunicare ciò che sentiamo alle altre, allora non possiamo raggiungere il consenso in nessuna interazione specifica. E se non ci sentiamo libere, al sicuro e in grado di sintonizzarci con noi stesse e comunicare chi e come stiamo alle altre, allora non possiamo essere pienamente noi stesse nella relazione: staremmo nascondendo le parti vulnerabili, condividendo solo alcune parti di noi stesse.
Per acconsentire a qualcosa, dobbiamo sapere pienamente e profondamente che non siamo obbligate a fare quella cosa, né ora né mai. Questo vale sia che la cosa in questione sia fare sesso con una partner, fare il compito che ci siamo prefissate in un determinato giorno, uscire con un’amica o stare in una relazione o un gruppo.
Dobbiamo sapere che niente è condizionato da questo, che non siamo vincolate da un diritto o da un obbligo, che non ci sarà una punizione se non lo facciamo e che non c’è un presunto copione o percorso “normale” predefinito che ci si aspetta che seguiamo: tipo quello che fanno le altre persone o quello che abbiamo fatto in precedenza.
KINKNESS e BDSM
La visione binaria del mondo entra anche nella sfera sessuale e dell’intimità delle persone, al punto da dividere il sesso e la sessualità in pulito e sporco, normale ed estremo.
Sappiamo benissimo, però, che non è possibile inquadrare il sesso in uno spazio così ristretto per il semplice e lampante motivo che il sesso e la sessualità hanno sfumature innumerevoli, che si moltiplicano a seconda dei momenti di condivisione e che mutano in base alle persone coinvolte e al desiderio del momento.
Vogliamo che la storica necessità di moralizzare il sesso al fine di controllare alcune categorie di persone diventi parte del passato, finalmente.
Le donne hanno il potere di fare sesso come vogliono, gli uomini possono provare piacere nell’umiliazione, l’identità di genere e l’espressione di genere non sono più un limite.
L’approccio Kinky al sesso dà finalmente ad ognuna di noi il potere di accettare il piacere come viene, oltrepassando sensi di colpa che dipendono solo da preconcetti che riducono i nostri corpi a oggetti fini a scopi deterministici.
Trova ampia considerazione all’interno del nostro pensiero politico perché favorisce una molteplicità di relazioni intime, sia con partner di gioco (play partner) che al di fuori del BDSM: per via delle molte configurazioni da cui viene attraversato (nelle sue varie pratiche) vi sono single, persone che praticano la poliamoria, persone che praticano il BDSM con amici o partner occasionali, ecc.
La cultura kinky e il BDSM danno un potere al nostro corpo nella sfera sessuale che è libertà assoluta, dove la norma non esiste. Esiste solo il consenso.
Il BDSM può essere considerato anche una forma di intimità contemporanea o anche come uno stile di vita che può prescindere dai rapporti sessuali, soprattutto durante le serate di gioco [semi-pubbliche in locali e club].
Per noi può rappresentare un codice di esistenza; ma anche, un campo infinito di possibilità di identità e di avventure imminenti.
Sono pratiche che si muovono nel corpo, sono operate da corpi-realtà che agiscono come virus, determinando nel corpo il rilascio di una grande quantità di ormoni (endorfine, adrenalina, serotonina, ossitocina, ecc.) che agiscono destabilizzando momentaneamente le categorie di pensiero che sembrano la nostra forma naturale e permettono così una possibilità sovversiva di risignificazione di parole quali limite, paura, dolore, piacere, forza, ecc. In queste micro-ribellioni, noi vediamo la possibilità di un canale di accesso a un desiderio dissidente e in quanto tale capace di operare un’esplosione dell’epistemologia petrosessorazziale (come direbbe Preciado) per sovvertire il regime bio-necro-politico nel quale ci troviamo.
Per mettere in pratica un dialogo intorno a quello che sempre Preciado chiama corpo rivoluzionario come corpo erotico dissidente, «pensato anche come il corpo della Terra, come soggetto vivente nella sua co-vulnerabilità, ma anche nella sua interdipendenza strutturale che si oppone alla violenza strutturale che subisce e che subiamo».
PERSONE TRANS* BINARIE E NON BINARIE
Dobbiamo essere schiette, quasi brutali: nel 2025, parlare della realtà vissuta dalle persone Trans* significa dover constatare un fallimento collettivo.
Nonostante lotte in corso da decenni per i diritti, questa parte dell’umanità continua a essere ignorata, marginalizzata, brutalizzata, oppressa, sottoposta a vessazioni, inaccettabili discriminazioni e violenza. Non è una semplice “questione sociale”: è un’emergenza democratica dimostrata anche dall’ultima aggressione a Roma subìta da soggettività Trans* da un branco composto da 10 uomini.
Le istituzioni educative, in particolare, dovrebbero essere cuore pulsante del progresso. Troppo spesso, invece, sono luoghi in cui la transfobia si manifesta. I dati parlano chiaro: il 66% delle persone Trans* binarie e non binarie in Italia è stata discriminata a scuola o all’Università. Dietro questi numeri ci sono persone costrette a vivere nell’ombra, a censurarsi, a sopravvivere in contesti in cui crescita e libertà dovrebbero essere garantite.
Vedere tanti, troppi Enti Educativi alimentare e perpetuare una cultura dell’esclusione è semplicemente inaccettabile.
Inoltre.. Quanto “Rainbow Washing” ipocrita è presente in tante realtà lavorative!
Molte aziende sfoggiano arcobaleni durante il Pride Month, mentre la realtà quotidiana a lavoro per le persone Trans* è composta da prese in giro più o meno esplicite, esclusione, molestie, porte chiuse. L’80% riporta micro-aggressioni costanti e tante tra loro, tante tra noi, non intraprendono nemmeno una ricerca finalizzata ad un lavoro per non dover poi subìre discriminazioni. Nessuna dovrebbe dover scegliere tra la propria dignità e la sopravvivenza economica.
Allarmante la percentuale delle persone ad aver subìto aggressioni fisiche, in base agli ultimi report nazionali ed internazionali. Purtroppo la comunità T* è bersaglio costante dell’odio, alimentato da deplorevoli politiche tossiche, disinformazione mediatica e un silenzio istituzionale equivalente a complicità. Ogni persona Trans* ferita o uccisa è il risultato diretto del Sistema in questione. Chi nega questa realtà, ne è parte.
In Italia, la Legge 164/1982 risulta ormai obsoleta e inadeguata.
La sua applicazione richiede percorsi giudiziari complessi e invasivi, i quali non rispettano l’autodeterminazione delle persone. Diverse proposte legislative mirano a superare questa Legge, introducendo procedure amministrative semplificate. Tuttavia, queste proposte incontrano resistenze politiche e istituzionali da cui viene rallentato il progresso verso una piena inclusione. La questione delle carriere alias per dipendenti comunali e nelle realtà scolastiche è un altro aspetto cruciale. Sebbene previste dal Contratto collettivo nazionale dal 2022, queste misure non sono ancora state pienamente realizzate: sarebbero un passo importante verso il riconoscimento anche legale delle identità non binarie.
In seguito poi all’ispezione al Carreggi a Firenze, i percorsi dedicati all’affermazione di genere hanno subìto numerosi ritardi nell’attuazione e continuazione dei piani terapeutici. Inoltre sono state allontanate le specialiste Alessandra Fisher e Jiska Ristori comportando uno slittamento o annullamento delle visite in coda senza reali motivazioni. Quello che quindi era un centro di eccellenza per i percorsi di affermazione di genere è stato bersaglio di un’azione politica e mirata.
Ad ogni modo, registriamo un recentissimo passo avanti: nelle ultime settimane è stato approvato in via definitiva alla Camera il Decreto Legge Elezioni, grazie a cui le liste elettorali non saranno più distinte in base al genere e dunque, finalmente, non esisteranno più file separate in tal senso ai Seggi.
Rivendichiamo diritti, riconoscimento, autodeterminazione. La società dovrebbe semplicemente sostenere, sostenerci, con determinazione e senza compromessi. Esprimere neutralità significa alimentare il suddetto sistema. Bisogna celebrare ogni identità come legittima e pretendere azioni legislative davvero efficaci.
Dobbiamo ruggire insieme contro discriminazioni e violenze.
EDUCAZIONE AFFETTIVA
L’educazione affettiva scolastica non è un’opzione, non è a scelta, non è da approvare dai genitori, è una necessità, un’esigenza forte della comunità scolastica; è un’urgenza sociale, educativa e culturale.
Le scuole sono i primi luoghi in cui le persone piccole e le giovani si confrontano con l’altra, con la diversità, con i propri sentimenti e con quelli altrui. Eppure, troppo spesso, il linguaggio dell’affettività viene ignorato, ridotto o censurato. Lasciamo le nostre giovani sole, senza strumenti per comprendere chi sono, cosa provano, come relazionarsi in modo sano, rispettoso e consapevole.
Rivendichiamo una scuola che ponga al centro l’educazione, il confronto e la valorizzazione delle persone, e che non si basi invece su una scalata fondata sulla competitività, su di un “merito” che sa di capitalismo, di performance e di classismo.
Il sistema scuola deve evolvere per rispondere alle esigenze attuali della società reale. Non possiamo permetterci di mantenere un sistema educativo anacronistico, lontano dalle persone, dalle necessità, dalle vite delle nuove generazioni, dal personale scolastico che le abita. Senza un’adeguata educazione affettiva, rischiamo di crescere generazioni di adulte prive di strumenti per leggere, esprimere e vivere in modo consapevole le proprie emozioni e costruire relazioni sane e rispettose con le altre.
Chiediamo l’introduzione strutturale e obbligatoria dell’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici, a partire dalla scuola primaria, con percorsi integrati sul bullismo omolesbobitransafobico, l’educazione sessuale, le infezioni sessualmente trasmissibili, l’IVG e l’autodeterminazione dei corpi. Non possiamo che immaginare percorsi affrontati con serietà e competenza che diventino parte integrante del curricolo scolastico, promuovendo una maggiore consapevolezza e rispetto reciproco.
Con lo stesso impegno e meticolosità chiediamo formazione continua per le insegnanti e il personale scolastico, per affrontare con competenza temi quali identità di genere, orientamento sessuale, consenso, gestione delle emozioni e prevenzione di violenza e discriminazioni.
Vogliamo sportelli d’ascolto e psicologici gratuiti per tutte le studentesse che ne sentano la necessità, che siano luoghi sicuri, laici e non giudicanti, attraversati da personale formato sull’identità sessuale, in collaborazione con le realtà associative e attiviste LGBTQIA+ che da anni nei territori offrono laboratori e pratiche educative.
Garantiamo il diritto allo studio con l’Istituzione della carriera alias senza certificazione medica in tutte le scuole e tutte le università per ogni persona Trans* e non binary.
Non ci bastano più alcune pratiche virtuose in pochi istituti.
L’educazione affettiva è un atto politico, un atto di amore e di cura.
E la cura, lo sappiamo, è sempre rivoluzionaria.
L’educazione affettiva è libertà di essere noi stesse, di costruire relazioni non violente e di imparare il rispetto dell’altra e di sé e L’Italia è in ritardo anche su questo.
È ora di costruire una scuola che non lasci indietro nessuna.
Abbiamo lavorato, quest’anno con molte più difficoltà dei precedenti, alla costruzione di questo documento e di tutto il percorso dell’Abruzzo Pride.
Ciò nonostante, seguendo ancora una volta bell hooks, abbiamo lavorato per cambiare il nostro modo di parlare e scrivere, per incorporare nei nostri racconti un senso geografico: non solo dirci dove siamo ora, ma anche da dove veniamo cercando di riportare le molteplici voci presenti sia in ognuna di noi sia fra tutte noi.
Stiamo affrontando il silenzio e l’incapacità di essere articolate, specie di fronte alla violenza, alla fatica, alla solitudine. Quando diciamo che queste parole e riflessioni scaturiscono dalla sofferenza, ci riferiamo alla lotta personale di ognuna di noi, e a quella collettiva, che in ogni momento si deve condurre per definire la posizione da cui si dà voce, lo spazio per teorizzare, ma anche per respirare.
Partire dal margine è per noi la nostra lotta, abitare quel margine per farne un radicale spazio di possibilità è quello che desideriamo.
Ora.
“Ed è per questo che dichiaro: non siamo qui solo per resistere. Siamo qui per vincere. La caduta del patriarcato è inevitabile. E sarà con le nostre mani, con i nostri affetti e con il nostro radicalismo che avverrà.
Il mondo è in crisi, sì. Ma non siamo noi il problema.
Noi siamo la risposta.
La rivoluzione è già iniziata”.
Coordinamento Abruzzo Pride
Arcigay Chieti Sylvia Rivera
Arcigay K.H. Ulrichs L’Aquila
Arcigay Teramo La Virtuosa
Jonathan – Diritti in Movimento
Marsica LGBT
Mazì – Arcigay Pescara
Presenza Femminista
Nei piccoli centri ci vogliono invisibili, chiuse nelle case, costrette ad andarcene per sopravvivere. Ma questa volta le strade saranno nostre. Cammineremo lì dove ci hanno detto di stare zitte, dove ci hanno umiliate, dove ci hanno fatto sentire sbagliate. E non chiederemo permesso.
Il Pride è lotta, memoria e resistenza. È la risposta a chi ci vuole cancellare, l’urlo di chi non può farlo, il fuoco che non si spegne. Se vi diamo fastidio, meglio abituarsi: siamo qui per restare.