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“Morte e pianto rituale”: il rock oscuro di Cigno

Subiaco – Dove si legano magia e rivoluzione? Morte e pianto rituale, il nuovo lavoro di Cigno (alias Diego Cignitti, musicista originario di Subiaco) cerca di sondare questo spazio, fondendo due strumenti immaginativi: quello demartiniano, di marca antropologica (il titolo dell’album ricalca il famoso saggio di Ernesto De Martino); quello di una certa tradizione del rock alternativo, crudo e abrasivo, ma anche ipnotico.

Da un punto di vista tematico, infatti, il disco si concentra soprattutto su una condizione di sfruttamento, di marginalità sociale, e ne racconta le ossessioni e l’ustione, secondo la visione di un riscoperto operaismo. In questo senso, La classe operaia va in paradiso – che cita, ovviamente, Petri – è in verità solo l’esempio più facile: tutti i testi dell’album – che svicolano a tratti anche nel latino e nell’arabo – dipingono effettivamente un mondo in frammenti, una coscienza disturbata se non proprio tragica («ferri nei ferri arrugginiti / piegano le piazze / urlano le schiene», ascoltiamo in Protestanti). Questo aspetto, nella sua versione più schiettamente sociale (che vuol dire: gerarchia opprimente, disparità, opposizione di classi), emerge chiaramente nei pezzi a più esplicito indirizzo politico: Postcapitalismo – di un post-punk di netta ascendenza cccpiana – oppure Mare nero («i poteri son sempre tutti neri / cambiano le Americhe ma rimaniamo schiavi»).

Ma la “nerezza” dell’album attraversa anche la dimensione di classe – pure cardine, coraggioso, del disco – ed è questo attraversamento il quid stesso di Morte e pianto rituale: nera pare la condizione umana in quanto tale, e la musica – che poi è “il pianto rituale” stesso, in ottica demartiniana – non fa che farla emergere, le dà forma in un’architettura di catrame e percussioni, la denuncia. Ecco, sta qui la zona di incontro tra magia e lotta politica: attestata la “nerezza” della condizione umana, Cigno fa in modo che questo dato non si limiti alla sua inerzia, né che, d’altro canto, si stacchi dall’effettiva concretezza delle cose (che è appunto il materialismo, il verificarsi di questo sfruttamento all’interno di una precisa logica classista). Per compiere questo, appunto, si serve della musica, come veicolo di nominazione estetica, come ritualizzazione – allora esorcismo, o almeno sguardo, scoperta – del male.

Da qui si capisce anche la matassa dei riferimenti musicali. Si è detto, già, dei CCCP e del punk/post-punk – si aggiungano certe venature industrial (di taglio Nine Inch Nails o di raddolciti Einstürzende Naubauten), la parentela con il recente IRA di Iosonouncane (per l’immaginario e il cromatismo, nonché per gli aspetti plurilinguistici) e infine alcuni innesti pianistici e chitarristici che (soprattutto in Colobraro, Pietra sprecata e Kabul) mostrano il talento tecnico dell’artista e si offrono come pause liriche, contraltari all’impatto bruciante del resto dell’album. Ne emerge così un denso grumo sonoro, in cui la voce – che pure ha un centrale ruolo salmodiante, a metà tra Ferretti e le registrazioni etnomusicologiche di Diego Carpitella – si eclissa, si pone sullo sfondo come strumento tra gli strumenti, fa emergere tutta la rabbia e il cristallo di questo lavoro. Che detesta e morde e illumina insieme.